Decumano Carbon Free: l’anello virtuoso che potrebbe essere applicato a tutti i borghi europei 22/10/2024
Con la Cappella del Monte Tamaro, Mario Botta esprime pienamente la sua visione del costruire, colma di sacralità, umanità e devoto rispetto per la natura. A cura di: Arch. Emanuele Meloni Indice degli argomenti: C’era una volta il monte Tamaro Svizzera terra di montagne La forma del percorso La struttura della forma Le liturgie artistiche di Enzo Cucchi La sacralità dello spazio Costruita sul principio degli anni 90, a oltre 1.500 metri di altezza, sul monte Tamaro, nella Svizzera italiana del Canton Ticino, la Cappella dedicata a Santa Maria degli Angeli rappresenta ancora oggi una delle vette più alte mai raggiunte nella poetica del costruire del celebre architetto ticinese Mario Botta. C’era una volta il monte Tamaro La storia delle vicende costruttive della Cappella di Santa Maria degli Angeli ha qualcosa di magico, di fiabesco. Egidio Cattaneo e la moglie, alla partenza dei loro tre figli, rimasero soli a vivere ai piedi della montagna: in valle vendevano il carburante, sull’Alpe portavano le pecore al pascolo. Elena sul letto di morte aveva espresso un desiderio al marito: costruire una cappella sull’Alpe dove avevano vissuto felici insieme. Le grandi ricchezze accumulate dai coniugi nulla valevano di fronte a tale smisurato dolore. E fu così che entra in scena Mario Botta. L’architetto svizzero, come spesso racconta, è stato chiamato al telefono dal signor Cattaneo in persona – il suo futuro cliente – che lo informava della sua volontà di realizzare una chiesa in alta quota, in memoria della moglie scomparsa, e lui era il prescelto per dare forma alla sua idea. L’architetto, come di rado accade nella vita professionale, poteva disporre della massima libertà espressiva, sia nelle scelte tecniche che nell’ubicazione dell’opera. Botta, dopo varie e successive perlustrazioni, decise di collocarla a poca distanza dalla funivia, in un luogo strategico. Da quella posizione, l’edificio domina infatti su tutta la valle sottostante e sterminata fino incrociare le maestose Alpi che si stagliano imponenti all’orizzonte. Svizzera terra di montagne La Svizzera è terra di montagne (oltre il 60% del suo territorio è occupato dai rilievi alpini). Quando arrivai per la prima volta ai piedi del Monte Tamaro, in macchina dalla Capriasca, vicino Lugano, impiegando una mezz’ora circa, lungo l’autostrada che conduce a Locarno, non immaginavo che lo stupore per il costrutto dell’uomo potesse rivelarsi tanto potente. Attraversando la valle che in alcuni punti tende alle fattezze di una gola (come un solco sovrastato tutt’intorno dal sorgere maestoso dei monti), giunsi alla funivia posta ai piedi del Monte Tamaro, nel Comune di Rivera. Da qui con facilità si arriva all’Alpe Foppa, poco oltre i 1.500 metri. La salita in fune svelava lentamente la maestosità della vallata. L’ultimo tratto prima dell’arrivo rivelò la presenza di una strana creatura, una fortezza in pietra, forse custode di millenari segreti. Da lì la vista appariva tanto sconfinata all’orizzonte fino a perdersi, fondendosi nella più remota foschia della cornice alpina. La chiesa vista dal sentiero che conduce alla cima del monte Tamaro (foto: Emanuele Meloni) Una costruzione curiosa, piuttosto insolita per quelle parti. Un manufatto distante dalle classiche costruzioni di montagna, in legno e pietra, ma al contempo vicino ad essa per armonia delle parti e cura dei dettagli. Una costruzione massiccia e pesante ma anche ricca di grazia da sembrare un artefatto della natura. A sinistra e a destra, le due viste laterali del camminamento superiore della chiesa (foto: Emanuele Meloni) Il camminamento offre due percorsi – uno che conduce a un belvedere che domina la valle sottostante e uno che scende all’interno di due muri fino ad arrivare all’ingresso della chiesa. Il tetto di copertura della cappella si articola come una scalinata ad anfiteatro rivolta verso la montagna, in un percorso continuo. La forma del percorso La forma del manufatto è aperta a multiple letture simboliche. Vista di profilo, l’imponente costruzione somiglia ad una nave, un vascello incagliato nella roccia e sospeso sul vuoto della valle sottostante. Ne rafforzano l’evocazione formale, la serie di aperture a forma di oblò disseminate lungo i lati e la croce terminale posta a vessillo o bandiera. Dall’alto appare invece come una freccia pronta a scagliarsi contro le catene montuose che cingono lo sguardo all’orizzonte. La passerella ne è il braccio e la cappella l’arco e la punta. La croce inquadra e dirige lo sguardo come un mirino ottico, con precisa devozione. Quest’idea del percorso era forte nella mente dell’architetto fin dalle sue prime riflessioni progettuali. Botta confessa, infatti, che: “Quando son salito sul Tamaro mi son spaventato. Che idea gli do al manufatto? L’idea del percorso è stata l’idea portante. E l’idea del percorso per consolidare un luogo. Avevo bisogno di finire questo paesaggio e di separare quello che era l’elemento di natura da quello già umanizzato.” (tratto dal documentario “TAMARO. Pietre e angeli. Mario Botta Enzo Cucchi”). La struttura della forma Botta ripropone per la cappella del Tamaro il profilo della Chiesa di San Giovanni Battista a Mogno, progettata appena qualche anno prima e che successivamente evolverà nella Cattedrale di Évry. Quel cilindro tronco, tagliato di sguincio, che porta in sé il significato della forma incompiuta, della rovina. Quella dimensione tra natura e artificio, ch’è tipica dell’architettura vernacolare (come i Trulli o i Trabucchi), spontanea. E lo fa sormontare da una maestosa e massiccia passerella che la penetra fino a colliderci. A sinistra: Chiesa San Giovanni Battista, Mogno, Svizzera. A destra: Cattedrale della Resurrezione di Évry, Parigi, Francia. La struttura in cemento armato è celata abilmente da un involucro in pietra di porfido naturale (sottoforma di bugnato), proveniente dalle cave dell’Alto Adige, usata come cassaforma a contenere i getti di calcestruzzo e le armature metalliche. La pietra locale era considerata infatti troppo fragile per resistere alle condizioni climatiche estreme della montagna. Perciò Botta si rivolse al porfido della vicina regione italiana, dalle tonalità cromatiche affini ma ben più robusto e resiliente. La pietra, che ricopre come una pelle tutto l’edificio, gli permette di fondersi con le rocce della montagna, mimetizzandosi nel paesaggio con discrezione e grazia (nonostante la mole). Il risultato estetico è un monolite massiccio per materia, ma sinuoso e agile per forma. A metà strada tra un’antica fortezza, un bastione medievale, un tempio sacro e una moderna architettura che sa cogliere le peculiarità del luogo e interiorizzare l’ambiente circostante, allo scopo di valorizzarne l’esperienza umana. La chiesa è infatti l’occasione per glorificare lo spazio della montagna, luoghi familiari e cari all’architetto svizzero, sublimandone l’esplorazione dello spirito. Botta conferma ancora una volta la sua predilezione per le forme primitive, semplici, custodi di un ordine sacro del costruire. Il cerchio è per numerose culture e religioni il simbolo sacro per eccellenza, espressione di protezione ed armonia, che rappresenta il tempo ciclico, l’infinito, l’eternità, il sole, l’universo, Dio. E la Cappella dedicata a Santa Maria degli Angeli non fa eccezione. La sacralità rappresenta infatti per Botta una condizione intrinseca dell’architettura. Egli afferma infatti che “Costruire è di per sé un atto sacro, è un’azione che trasforma una condizione di natura in una condizione di cultura; la storia dell’architettura è la storia di queste trasformazioni”. Le liturgie artistiche di Enzo Cucchi La pietra è rivolta solo all’esterno; all’interno è intonacato. Lo spazio interno della chiesa, caratterizzato dal contrasto tra i muri perimetrali circolari in grassello nero e le bianche sagomature lineari del soffitto, è strutturato in tre navate. La navata centrale ribassata è contrassegnata all’ingresso da due massicce colonne e culmina nella piccola abside che fuoriesce dal volume primario. Qui, l’intensa luce zenitale dà risalto al segno di preghiera delle mani disegnate sul muro da Enzo Cucchi, l’artista italiano che ha inoltre inciso le formelle applicate sugli squarci delle ventidue aperture poste l’ungo il perimetro interno. Le pitture di Cucchi, considerato tra i principali esponenti della “Transavanguardia italiana” (corrente artistica nata negli anni Settanta da un’intuizione del critico d’arte Achille Bonito Oliva), suggellano la spiritualità della sala. Caro amico di Mario Botta, già da molti anni ambivano a realizzare un lavoro insieme. E, sul principio degli anni 90, arrivò finalmente l’occasione giusta. L’artista marchigiano ha tradotto in suggestivi segni le 22 litanie che Padre Giovanni Pozzi del Convento dei Cappuccini di Lugano (insigne studioso delle forme della preghiera e della spiritualità) ha composto su invito di Mario Botta. Queste opere pittoriche vanno a scandire le aperture vetrate che catturano l’ambiente esterno in un dialogo incalzante tra la natura e lo spirito. “Le 22 formelle sono come il pane. Le 22 formelle sono il pane. Hanno questa idea di misura necessaria per far continuare la preghiera”, confessa Cucchi. Tutte le composizioni (il sole, la luna, la strada, l’olivo, il melograno, l’albero della vita, il cedro, il faro) simboleggiano Maria a cui è dedicata la chiesa. La sacralità dello spazio Grazie ai toni scuri delle pareti, interrotti solo dal calore del legno degli arredi, le cui forme essenziali e la luce che filtra dalle fessure con discrezione, donano allo spazio un carattere di sacra intimità. L’effetto è rafforzato e amplificato dalle opere di Enzo Cucchi: tracce e segni arcaici che evocano le prime forme di pitture rupestri. Le mani al centro dell’ambiente, dietro l’altare ne sono la più alta rappresentazione. Come le prime basiliche cristiane, la cappella torna ad essere un luogo di meditazione e preghiera, di contatto diretto con il divino. Il lavoro di Cucchi è stato lungo e faticoso, minuzioso e ossessivo, ma finalizzato alla ricerca dell’armonia generale, del perfetto equilibrio tra architettura e pittura. Senza che l’una potesse deturpare o disturbare l’altra, predominando. “Sono convinto che una cosa che descrive minimamente […] abbassa il livello di tensione di qualsiasi segno, anche dell’architettura stessa”. L’artista ha perciò prodotto un numero smisurato di disegni, schizzi, bozze, ben oltre quelle necessarie ad adornare la chiesa con lo scopo di poter disporre di un’ampia selezione, a favore dell’immagine giusta da adoperare (“faccio tutte le cose che non vanno fatte, devo pulirmi la testa. Per l’armonia del tutto”). Botta confida: “Fare una chiesa a 1500 metri, nel vuoto della montagna, è anche una scommessa rispetto al problema del silenzio. La montagna ha i suoi rumori. Il vento in continuazione narra questa attitudine. Questo è un luogo che vuole essere anche un luogo che esclude la montagna. L’idea del sacro e l’idea dell’esclusione. Quando si passa la soglia si va oltre il mondo esterno, vi è questo microcosmo, questo interno, e diventa un po’ un luogo sacro. Proprio perché esclude l’esterno. Uno spazio di raccoglimento, di meditazione, di silenzio, per chi vuole usufruire di questo luogo.” La Cappella sul Monte Tamaro è un’opera corale, intreccio di natura e arte, l’architettura e umanità. Mario Botta dimostra profonda devozione per la montagna ed i suoi valori. Nella radicata convinzione che “Costruire è un atto sacro.” Per approfondire: Villi Hermann, TAMARO. Pietre e angeli. Mario Botta Enzo Cucchi, 1998 (documentario) Botta M., Cucchi E., La cappella del monte Tamaro. Ediz. Illustrata, Allemandi, 1997 Pozzi G., Mario Botta. Santa Maria degli Angeli sul monte Tamaro, Casagrande, 2001 Scheda Progetto Località: Alpe Foppa (1567 s.l.m.), Monte Tamaro, Canton Ticino, Svizzera Progetto: 1990-1992 Costruzione: 1992-1996 Committente: Egidio Cattaneo Progettista: Mario Botta Artista: Enzo Cucchi Area cappella: 184 mq Volume: 2.820 mc Foto: Enrico Cano/Emanuele Meloni Consiglia questo progetto ai tuoi amici Commenta questo progetto