“Architettura insostenibile”

Parlare di un’identità architettonica comune dei Paesi Balcanici occidentali presenta, fin dalle prime battute, innumerevoli difficoltà e questioni alle quali tentare di dare una risposta.
Innanzi tutto che cosa si intende con il termine Balcani?
La penisola balcanica è geograficamente ben circoscritta, ma le Nazioni che vengono raggruppate sotto questo comun denominatore sono: Albania, Serbia, Croazia, Bosnia-Herzigovina, Macedonia, Montenegro, Grecia e Bulgaria.
Tuttavia, quando si parla di Balcani occidentali, dal punto di vista culturale, si considerano gli Stati della ex Jugoslavia, andando a comprendere quindi anche la Slovenia, e l’Albania.
Ma, soprattutto, che cosa accomuna queste realtà, oggi così politicamente frammentate, che possa far pensare ad un’identità culturale, e ancor più specificatamente architettonica, comune?
Indubbiamente il primo segnale di appartenenza a una medesima entità si può riscontrare nella lingua, molto simile per tutta quest’area geografica e per la notevole complessità della composizione sociale e religiosa che ha visto per secoli la convivenza di cristiani ortodossi, cattolici e mussulmani.
Questa multi etnicità, che nel passato ha portato all’intolleranza razziale, esasperata fino al suo sfociare nel conflitto bellico, oggi paradossalmente, unisce sotto un unico mantello multicolore numerosi piccoli Stati che si sentono portatori di un destino comune.
Per quanto riguarda le Nazioni della ex Jugoslavia queste si possono considerare accomunate non solo dall’aver fatto parte di uno Stato unitario, ma anche, dal 1992 in poi, dall’aver dovuto far fronte a una difficoltosa condizione post-bellica che vedeva, da un lato le distruzioni provocate dalle bombe di interi quartieri delle principali città, dall’altro un fortissimo esodo di sfollati dalle campagne verso i centri abitati e dei rimpatriati dagli altri Stati che li avevano ospitati durante la guerra.
Non solo, tutti questi stati, compresa l’Albania, nonostante essa non abbia preso parte ai recenti conflitti, hanno visto lo sgretolarsi di una società comunista, riassumibile in quattro fasi: una prima fase totalitaria nell’immediato dopoguerra, una crescita economica notevole negli anni ’60 e ’70, con una conseguente rapida urbanizzazione, la stagnazione economica degli anni ’80 e, infine, il collasso dei regimi comunisti negli anni ’90.
In particolare in Albania lo Stato non prevedeva abitazioni di proprietà all’interno della cintura cittadina, i terreni erano acquistabili solo in periferia, con la conseguenza di una drastica rincorsa al bene “casa” non appena cadde il regime e, al contempo, l’immigrazioni di molti albanesi del Kosovo, durante le persecuzioni serbe, portò all’identica inevitabile richiesta di abitazioni che avveniva nei vicini Stati della ex Jugoslavia.
“In conclusione, parlare di città post-sociaiste significa ragionare su città che, parallelamente alle loro società, sono intrappolate in una difficile transizione dalle molteplici componenti: il passaggio dal governo autoritario della città pianificata, alla città della governance orizzontale; da una città della fabbrica a una città capitalistica e del consumo; da città integrate nelle rispettive economie nazionali a città del sistema economico globalizzato. La transizione al mercato e alla democrazia liberale si è rivelato per molti versi più complesso e più lungo del previsto nei Balcani occidentali.
La complessità delle sfide che attendono le città balcaniche non troverà adeguata risposta se non creando spazio per la partecipazione e il confronto tra la strategia del pianificatore e i bisogni dei cittadini, tra gli interessi degli investitori stranieri e la forza delle autorità locali, tra le diaspore che investono le rimesse nella costruzione di case e l’intraprendenza della società civile locale. Le città dei Balcani sono in cerca di autore”.(1)
Si assiste quindi a uno sviluppo comune a tutte le principali città del sud-est europeo: Belgrado, Tirana, Pristina, Zagabria, Sarajevo, ecc.., sono parificate tutte da un improvviso boom edilizio che, per comprensibili impossibilità politiche ed economiche, nessuna di queste realtà ha saputo gestire, con il risultato di una crescita incontrollabile e informale dell’espansione edilizia.
Interi quartieri sorgono negli spazi liberi ai margini delle città, in luoghi privi dei servizi primari e senza alcun rispetto delle principali norme.
Palazzi esistenti subiscono ampliamenti, rialzi, saturazione degli spazi residuali, il tutto abusivamente, con un inevitabile aumento delle tensioni sociali.
Belgrado è una città costruita quasi per metà in modo informale; questo è dovuto principalmente a una legge, ancora oggi in vigore, che prevede che la superficie interna alla città sia di proprietà del comune e quindi non privatizzabile, mentre quella agricola può essere oggetto di compravendita.
Così molti cittadini hanno comprato terreni agricoli e su questi costruito abusivamente; Kaluderica ad esempio è una città sorta a sud-est di Belgrado, completamente priva di alcuna pianificazione.
Bathore, situata a nord di Tirana, è un altro esempio emblematico: durante il regime comunista era un’area agricola, ma dagli anni ’90 è stata investita dal boom edilizio e oggi si presenta come la più grande baraccopoli albanese.
La risposta alla spaventosa condizione della città ereditata nel 2002 dal sindaco Edi Rama e diventata ormai celeberrima, è molto interessante, soprattutto se rapportata alla scarsità delle risorse economiche con cui è stata attuata.
Il “Piano del Colore” è stata una manovra molto intelligente, proprio per la sua semplicità, in quanto ha consistito nel “Rifare il trucco” alla città, ossia ritinteggiare le facciate dei palazzi di Tirana.
Al contempo le costruzioni abusive di chioschi e baracche che occupavano i parchi e gli spazi verdi, di cui per altro Tirana era ricca, sono state smantellate, con il risultato complessivo di una riacquisizione dello spazio pubblico da parte dei cittadini.
“Tutti quelli che osservano da lontano l’iniziativa della colorazione delle facciate dei palazzi la ritengono un’operazione di cosmesi. Una ristrutturazione come tante, magari solo un po’ più eccentrica. Non è assolutamente così. Io ho compiuto un’operazione politica (…) Volevo svegliare i cervelli della gente di Tirana, dare una scossa a tutta la comunità. Era difficile rianimare un corpo agonizzante. Dopo la morte della speranza che aveva colpito la popolazione albanese regnava il cinismo e l’indifferenza” (Edi Rama)
All’inizio l’operazione era partita con l’idea di limitarsi solo ad alcuni palazzi, quelli più rappresentativi del centro storico, ma poi il risultato ha entusiasmato i cittadini e ha attirato l’attenzione di architetti ed artisti, anche di fama internazionale, i quali hanno voluto partecipare, proponendo dei veri e propri studi di colore che dessero dignità anche a quegli edifici in apparenza senza alcuna qualità architettonica, come gli edifici popolari creando sfondati, aggetti e ombre su facciate piatte, foglie e alberi, incorniciando finestre, ecc…
Nei parchi le panchine sono vivaci macchie di colore, si progettano lampioni e alberi in ferro con foglie di lamiere colorate, il viale principale della città si riveste di piastrellino rosse e le pavimentazioni delle vie richiamano i motivi dei tappeti tradizionali albanesi.
Quella che sembrava fosse una superficiale operazione di maquillage si è rivelata nascondere un significato molto più profondo: un simbolo di rinascita, il segnale che, anche in situazioni in apparenza disperate, i vincoli possono tramutarsi in risorse, innescando un meccanismo a catena per un recupero globale.

“Architettura insostenibile”
Tirana, esempi di facciate colorate, in seguito al Piano del Colore.

Si tratta del medesimo processo adottato, a partire dagli anni ’70, dal sindaco brasiliano Jaime Lerner per la città di Curitiba, definito di “agopuntura urbana” e ripreso da Sonia Pistidda, architetto e professore a contratto presso il Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura Bovisa, nella sua tesi di dottorato(2).
Si tratta di operare per parti all’interno di una città, individuando poche zone campione, ma che si ritengano cruciali per innescare poi un processo emulativo a catena. Andando a intervenire con la riqualificazione di specifiche parti, con interventi mirati a risolvere precise problematicità riscontrate nei singoli quartieri, automaticamente anche le aree limitrofe verranno investite dalla spinta positiva innescata dalla rinascita della zona in cui si è intervenuti.
La riqualificazione infatti anche di un solo quartiere funge da calamita per le piccole attività commerciali, per i locali pubblici e per tutta una serie di iniziative che portano la frequentazione dei cittadini e in definitiva la vita in aree, magari in precedenza deserte e pericolose.
In questo modo, senza fretta e con modeste risorse economiche la città gradualmente può uscire da una situazione in apparenza senza sbocchi.
Emblematico, da questo punto di vista, è il caso di Pristina, la cui realtà è ancor più problematica a causa di una guerra, quella per l’indipendenza del Kosovo, protrattasi fino al 1999.
La mancanza di un controllo governativo alla crescita incontrollata della città è quindi ancora percepibile e l’assetto burocratico tutt’oggi fortemente caotico, così che Pristina cresce in modo tentacolare, in ogni direzione (in orizzontale, ma anche in verticale) senza che nulla sembri poterla fermare.

“Architettura insostenibile”
Pristina, esempio di edificio ampliato e innalzato con modalità informali

Questo fenomeno è molto ben descritto da Kai Vockler, fondatore della ONG Archis Invent, nel libro “Prishtina is Everywere.Turbo Urbanism: the Aftermath of a Crisis”.
Il grande merito del ricercatore tedesco è di aver attirato l’attenzione a livello internazionale su un fenomeno che, anche se nello specifico analizza la situazione a Pristina, in generale può essere allargato a tutte le realtà post-belliche e di crescita informale delle città, proponendo soluzioni concrete, simili a quelle suddette, concentrandosi cioè su piccole porzioni di città, e prendendo accordi con le istituzioni locali preposte, per arginare e dare legittimità allo stato di fatto della città.

“Architettura insostenibile”
Tessalonicco, densità urbana.

Lo studio si è condensato poi in una mostra itinerante Balkanology. New Architecture and Urban Phenomena in South Eastern Europe (3), lavoro realizzato in collaborazione con numerosi architetti e professionisti locali.
Balkanology è proprio un tentativo di raccontare, attraverso una mostra fotografica, i diversi approcci adottati dai professionisti dei vari Paesi dei Balcani occidentali per fare fronte a una comune difficoltà in termini di urbanizzazione.

“Architettura insostenibile”
Skopia, esempio di edifici innalzati con modalità informali

La mostra presenta l’ancora oggi poco conosciuta architettura post-socialista, illustra le conseguenze di una sregolata e incontrollata crescita urbana e raccoglie esempi di progetti che evidenziano le tendenze dominanti all’interno di questi processi di trasformazione, proponendo interventi concreti e strategie di possibili pianificazioni.

“Architettura insostenibile”
Museo di Arte Contemporanea, Zagabria (Croazia), progettato da Igor Franić, pubblicata sul catalogo della mostra Balkanology. New Architecture and Urban Phenomena in South Eastern Europe

Da questa ricerca nascono anche i termini Turbo Urbanism e Turbo Style, riferiti alla miscellanea di stili ed elementi dell’architettura della tradizione e contemporanea che caratterizzano la produzione architettonica degli ultimi anni del Paesi del sud-est Europa.

“Architettura insostenibile”
Scuola Elementare di Frankopan, isola di Krk (Croazia), progettata dallo Studio Randić-Turato, Rijeka, pubblicata sul catalogo della mostra Balkanology. New Architecture and Urban Phenomena in South Eastern Europe

Ne emerge un quadro molto interessante, di una reazione alla necessità primaria, come quella della casa, del singolo cittadino che auto costruisce ciò di cui ha bisogno, con gli strumenti formali che ha a disposizione. L’unico modo di fare soldi in realtà economicamente in stallo, come quelle che stanno affliggendo i Paesi Balcanici occidentali, è il costruire abitazioni, spesso sovvenzionate dai cittadini con i soldi mandati dai parenti rifugiatisi all’estero e realizzate senza che vengano interpellati architetti, ma come un’accozzaglia di stereotipi provenienti dal mondo televisivo che dovrebbero simboleggiare lusso e benessere, ma che in realtà danno adito unicamente a dei veri e propri mostri architettonici.

“Imitating the styles of buildings seen in various media is a symbolic way of demonstrating modernity, but at the same time, it rejects modern architecture, since modern architecture also stands for Socialist Yugoslavia and an epoch in history that in now past. (…) Its mish-mash of styles is a reference to “tradition”, only this tradition mow comes to elsewhere. The rejection of one’s own tradition is a sign of internationalism and sophistication, there are no references to traditional regional architecture. The usual props, with their historic-looking elements of décor, can be found in local home improvement stores, having arriving there via the distribution network of international chain stores . (…) This created a kind of Victorian, classical, oriental, American, freestyle architecture which, of course, also uses elements of modernism, such as the load-bearing steel and concrete structure.”(4)

Rifiuto quindi della propria tradizione architettonica, come rigetto di un passato, in favore di una modernità quasi di fantasia, che normalmente anzi passa per ben altre forme e scelte di materiale. Un vero e proprio paradosso architettonico che vede il richiamo alla contemporaneità attraverso l’uso di singoli elementi “classicheggianti”, ma posticci, senza alcun valore strutturale, supportati da tecniche costruttive moderne, nell’illusione di rifarsi alla moda internazionale del momento.
Colonne ed archi vengono accostati a vetrate a specchio curve, dai riflessi sgargianti, senza alcuna coerenza compositiva, ne gusto negli abbinamenti dei materiali e colori.
Il sito “Osservatorio sui Balcani” pubblica a questo proposito: “Costruzioni di vetro, lastre di alluminio, svariati tipi di marmo, facciate ventilate, vetrate esagerate, mattonelle accecanti di colore e lustro, e poi interni di legno… Una volta sfuggiti alla noia del cemento e all’architettura social-realista, a Tirana è diventato insostenibile l’utilizzo indiscriminato di tutti i materiali e di tutte le forme, ovunque, dalle case di periferia alle zone più in voga della capitale.
Mentre l’ondata di queste costruzioni sembra incontrollabile, due noti architetti albanesi, Klement Kolaneci e Maks Velo, criticano questa tendenza di un’architettura che non rispetta né i criteri del buon gusto, né i canoni dell’architettura contemporanea.”
Si tratta quindi di una tendenza che sfugge al controllo degli stessi architetti, perché frutto dell’autoproduzione e rispecchia i canoni di stile, le immagini ormai sedimentate, di un genere architettonico che in realtà non esiste, non ha fondamento, né base alcuna, ma che si riproduce per emulazione,, imitando il vicino senza che ne venga messa in dubbio la legittimità estetica.

“Architettura insostenibile”
Esempi di edifici costruiti in Turbo Style

E ancora più interessante si fa questo fenomeno se si considera la profonda dicotomia che separa la produzione architettonica minore, da quella ufficiale, degli edifici di rappresentanza, che al contrario si allinea perfettamente all’immagine diffusa a livello internazionale dell’architettura contemporanea.

L’aeroporto di Tirana, progettato nel 2007 dallo studio Hintan Associates, il progetto vincitore del concorso per il nuovo Parlamento, sempre a Tirana, realizzato da Mario Campi, Fabio Reinhart, Agron Jano nel 2007, il centro commerciale di Usce a Belgrado, progettato da Chapman Taylor Architects nel 2009, sono alcuni esempi di architetture pensate con respiro internazionale, completamente indipendenti dal contesto nazionale in cui sono inserite.
Anzi la scelta di architetti stranieri lascia intuire, da parte dei rappresentanti delle Istituzioni preposte, il desiderio di dare in questo modo una connotazione di modernità alle proprie città, le quali sono rimaste a lungo ai margini della cultura europea, dotandole di edifici e infrastrutture in grado di migliorare la qualità della vita dei propri abitanti, svincolate da qualsiasi legame con un passato oggi, anche se non a ragione, sinonimo di arretratezza.

“Architettura insostenibile”
Aeroporto di Tirana, Albania.

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1 L. Chiodi, C. Sighele, La Metamorfosi delle città in transizione, pubblicato su www.osservatoriobalcani.org.
2 Sonia Pistidda, “Tra globalizzazione e identità mutanti. Il patrimonio culturale da vincolo ad opportunità per i paesi in transizione del sud-est europeo”.
3 La mostra è stata inaugurata nell’ottobre del 2008 al Swiss Architecture Museum di Basilea, a maggio/giugno 2009 è stata allestita a Pogdorica, a luglio/agosto 2009 a Novi Sad e dal 22 ottobre 2009 al 18 gennaio 2010 a Vienna.
4 Kai Vöckler with Archis Intervention, “Prishtina is Everywere. Turbo Urbanism: the Aftermath of a Crisis”, Archis, 2008

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Foto Andrea Munaro

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