Conversando con l’Architetto Italo Rota

“Il luogo è un fertilizzante della vita e gli spazi dovrebbero essere delle forme enzimatiche capaci di mettere in moto le cose perché in questo momento far girare l’energia sembra la priorità.

Con parole essenziali l’architetto Italo Rota racconta il senso che i luoghi devono avere oggi, ed il ruolo determinate della ricerca, della conoscenza, del processo creativo e della loro interazione nella vita.

Ex Convento di Sant’Arcangelo, Corso Matteotti, Fano
Ex Convento di Sant’Arcangelo, Corso Matteotti, Fano ©Francesca Urbinati

Una sintesi dell’obiettivo riposto nel progetto dei rinnovati spazi del Complesso Ex Collegio Sant’Arcangelo in cui l’architetto ha creato  5 installazioni artistiche che lo completano e lo fanno vivere,  presentate presso la Sala Verdi del Tetro della Fortuna di Fano [PU]. Terzo momento di condivisione di un’esperienza iniziata nel 2016 con due incontri insieme ai cittadini ed un’ultima narrazione con disegni e modello del progetto definitivo denominato La Fabbrica del Carnevale cantiere che inizierà entro il 2019. Una presentazione preceduta dalle entusiaste riflessioni del sindaco della città Massimo Seri e l’assessore regionale Renato Claudio Minardi. Incontro moderato dall’arch. Stefano Marchegiani, che ha seguito personalmente il percorso.

Installazioni – inserite  internamente ed esternamente al rinnovato edificio – che vanno oltre il tempo e rivolte alle persone nel rispetto del significato che la comunità dà a questo luogo e i desideri che in esso ripone. Il tentativo è unire le passate e nuove generazioni che con esso si sono confrontate e che gestiranno e vivranno la rinnovata dimensione produttiva che dovrà stimolare la crescita della città come luogo in cui porsi domande e scoprire storie.

Il complesso interessato dall’intervento era in origine un collegio della Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane che si è unito all’antico convento delle monache benedettine. Ambienti che si apriranno nell’ospitare la nuova istituzione, con spazi espositivi, sperimentali e ricreativi. Luoghi dedicati alla storia secolare del Carnevale e della Musica. In particolare dando vita all’Università della Musica e diventando sede del prestigioso Fano Jazz. Iniziative di valenza internazionale che hanno unito la città di Fano e Pesaro attraverso il progetto ITI Fano-Pesaro.

Vitruvium enigma - la scenografia vitruviana
Vitruvium enigma – la scenografia vitruviana  ©Studio Italo Rota
“My body is a joystick” ©Studio Italo Rota
“My body is a joystick” ©Studio Italo Rota

I contenuti delle installazioni

Le installazioni si sviluppano su un programma di quattro contenuti: La fabbrica del carnevale, robotica dei carristi, musica e mobilità sostenibile. L’architettura risponde con una prima riflessione sulla costruzione esistente di cui rimarrà integra solo la facciata esterna su Corso Matteotti, che si è scelto di mantenere perché elemento interessante e simbolo di affezione di tanti cittadini. Facciata degli anni ’60 che senza restauri sarà un imponente principale scenografico, limite oltre il quale vivere lo shock emozionale dei nuovi interni. Una chiara e condivisa scelta progettuale nel centro storico di una città attenta al passato ed incline a fissare la traccia di memoria, un’opportunità di produrre una distribuita energia del vivere.

Gli interni rivitalizzati dalle nuove installazioni sono il cuore armonico, vitale e ironico del misurato intervento, governati dall’uso del colore e la luce quali modulatori di nuove atmosfere che accompagneranno le visite alle opere dei maestri carristi, e dei fumettisti, visibili da multiple prospettive. Uno spazio ridisegnato e riorganizzato grazie alle nuove installazioni che  sono state inserite e che lo completano e dalla giusta misura, in cui ritrovare un equilibro spaziale e umano, dove i contenuti cambiano e si rendono disponibili perché in esso conservati e visitabili secondo un mutevole proporsi sotto la guida delle reali sfumature della luce del giorno. Un ritorno quasi primordiale ad esercitare il dono della vista, dell’udito, del tatto secondo natura, che si uniscono al tempo nella continuità del divenire. Un’esperienza che il visitatore potrà vivere sempre in modo differente, dando anche nuovi significati al luogo con il quale creerà un rapporto di fiducia.

Una delle peculiarità è l’eco all’interpretazione degli antichi ordini che si disegnano nella torre del vento in legno, quale canale di controllo naturale della climatizzazione invernale ed estiva su tutti i livelli. Strategia che richiama gli antichi modelli islamici per il raffrescamento, e che si misura con le proporzioni dell’ordine vitruviano e cita al suo basamento gli scherzosi the comic order, diventando vertigine di focalizzazioni prospettiche verticali.

Una strategia bioclimatica che si coniuga a murature massive, misurate aperture e l’uso del verde, come orto pensile, scelta tecnologica parietale dell’involucro esterno, interno alla corte, a favorire le modulazioni microclimatiche fra l’ambiente esterno e gli spazi interni in continuità con il pozzo termico del giardino pubblico. A completare  l’intervento che rende l’edificio efficace e passivo, pannelli fotovoltaici in copertura per l’acquisizione autonoma di energia.

Vista da Corso Matteotti, Fano
Vista da Corso Matteotti  ©Studio Italo Rota
Pianta e assonometria Ex Convento di Sant’Arcangelo, Corso Matteotti, Fano
Pianta e assonometria livello -1  ©Studio Italo Rota
Pianta e assonometria livello 0 ex-convento Sant’Arcangelo a Fano
Pianta e assonometria livello 0 ©Studio Italo Rota
Pianta  e assonometia livello-1 Ex-convento Sant'arcangelo a Fano
Pianta e assonometria livello 1 ©Studio Italo Rota
Pianta e assonometria livello-2, ex-convento Sant'Arcangelo a Fano
Pianta e assonometria livello 2 ©Studio Italo Rota
Sezione ex-convento Sant'Arcangelo a Fano
Sezione ©Studio Italo Rota

I volumi in cui si inseriscono le installazioni sono quattro

L’area interrata è dedicata all’accademia e club della musica jazz con un’area per ristoro, spettacolo e laboratori in cui ospitare progetti sperimentali fra arte, robotica e meccatronica, esposizioni e intrattenimento per il carnevale. Il piano terra è in diretta continuità pedonale e ciclabile con il corso del centro storico. Da qui il diretto ingresso all’accademia della musica, al ciclo parking, bookshop e ristorazione. Negli ambienti esterni del giardino l’inclinazione di quest’ultimo crea un teatro all’aperto. Ai piani superiori collegati da doppi volumi il display in (e)motion , ovvero gabbie di luce che accoglieranno la memoria dei cittadini legate al carnevale.

Un intervento artistico positivo, leggero e removibile che ha imposto i caratteri della sua sostanza costruita senza compromessi, dimostrando come si può intervenire nel centro storico anche per una sua autentica e attiva valorizzazione, dichiarando una contemporaneità capace di guardare oltre ed essere modello e fonte d’ispirazione per processi di evoluzione. Per questo i cittadini e gli interlocutori curiosi ed interessati sperano nel vedere presto il cantiere aperto affinché possa essere il simbolo di un precedente, accoglienza al nuovo ed al rinnovato ed efficace rapporto con la città.

Vista interna ex-convento Sant'arcangelo a Fano
Vista interna ©Studio Italo Rota

La fabbrica creativa è stata galeotta del privilegiato momento di dialogo con l’architetto Italo Rota per poterlo conoscere professionalmente e personalmente.

a cura di Valentina Radi

L'architetto Italo Rota
L’architetto Italo Rota – ©Ilario Gaggi

1] Sono di fronte ad un riferimento assoluto dell’architettura contemporanea e mi chiedo l’arch. Italo Rota come si descriverebbe, che cosa Le piace?

Cosa mi piace non le rispondo perché mi piacciono così tante cose che non saprei da dove iniziare, nel senso che la curiosità è stata sempre alla base della mia vita e si è tradotta nel viaggiare sempre. Questo ha avuto anche delle conseguenze sulla mia attività di architetto nel senso che ho fatto solo tre case nella mia vita per persone che conosco molto bene. Io il tema della casa non lo sento, mi piacciono gli aerei e gli alberghi. Infatti quando ho un cliente che mi chiede una casa lo ascolto e poi lo indirizzo a un altro architetto. È un tema  che non sento ma è un mio problema personale, per cui questa è una particolarità della mia vita. L’altra è di aver considerato sempre il mio lavoro un lavoro artistico, per cui ho delle spiegazioni ma non troppe, non so molto perché certi progetti sono così. Mentre mi sono sempre occupato del metodo e non della forma o dello stile, a me interessa molto il metodo con cui si arriva a definire uno spazio. Non so aggiungere altre parole in più che lavorare intorno allo spazio.

Lo spazio che oggi è diventato estremamente sofisticato come nozione, come parola, perché oggi potremo dire che lo spazio è l’estensione della nostra mente e che questo si arricchisce quando c’è più di una persona che lo esprime. La seconda cosa dall’inizio del secolo lo spazio si è creato delle gabbie molto interessanti, la prima è stata la gabbia elettrica, che ha portato la luce e ha prolungato il giorno, ma che ha anche cominciato a far funzionare tante macchine che hanno reso le persone molto più autonome. Le persone individuali hanno potuto vivere comodamente da sole. Questo si è poi incrementato con il web che ha creato un altro livello di queste gabbie che sono i veri limiti fra l’interno e l’esterno. Anche se oggi interno ed esterno è sempre più indefinito, perché non sappiamo bene dove inizia l’esterno, forse l’esterno inizia dove la natura si esprime ancora in maniera molto violenta. Ormai le città, l’agricoltura, i luoghi turistici sono tutti dei veri e propri interni in cui ci muoviamo come in una grande casa, in un grande palazzo. Questo sta cambiando tutto il modo di fare per gli architetti o almeno una parte.

L’altra cosa sono gli elementi fondamentali dell’architettura: possiamo dire che oggi la scala mobile, l’ascensore, la porta girevole, sostituiscono gli elementi dell’architettura come la porta, la finestra e stanno scrivendo una nuova capacità compositiva per elementi, quindi rifondativa.

Adesso stiamo vivendo un’ultima fase dell’architettura del ‘900, quella di un’architettura estremamente semplice, estetica, in cui in genere, la società o la politica chiedono all’architetto di farsi una domanda e di darsi una risposta, un’architettura quasi totalmente priva di senso se non all’interno della propria storia. Questa però è una fase terminale. Gli umani rifiutano ormai molto dell’architettura del ‘900 specie quella dell’inizio del XXI secolo e la usano per necessità. Il mondo più avanzato non si occupa più di architettura questo è certo, si installa dove gli serve  e cerca altre cose nello spazio, cerca il vuoto, cerca la natura, cerca la capacità di movimento, per cui è abbastanza indifferente se si trova in una situazione del XXI secolo in quanto costruzione o in un resto archeologico. Oggi con le nuove tecnologie possiamo installarci ovunque. La contemporaneità non viene più dalla scrittura dell’architettura, ma dal modo in cui noi viviamo, costruiamo l’ambiente, cioè c’istalliamo.

Adesso ho fatto con Carlo Ratti il nuovo padiglione italiano a Dubai e quella è una tipica istallazione, non è un’architettura. Sono della barche che partono dall’Italia, attraversano il Mediterraneo e il Mar Rosso arrivano a Dubai e vengono capovolte, per sei mesi formano uno spazio di comunicazione di contenuti. Però viaggiando creano una storia, si caricano di contenuti. L’altra cosa è che formano elementi estremamente temporanei. Non si può più neanche chiamarla architettura temporanea, sono elementi che cambiano di destinazione e non perché sono riciclati, ma assecondano ciò che è contenuto nella loro prima concezione, che mutano.

Questo penso che con la robotica e la macrotonica, l’architettura sarà sempre più un elemento in mutazione. Anche perché i modelli più congeniali oggi come organismi d’ispirazione sono quelli vegetali . L’organizzazione della foresta tropicale umida è il modello di organizzazione più vicino per organizzare una megalopoli. Oppure se si analizza il seme che ha una sua forma, una sua consistenza, diventa un germoglio, poi una pianta, fa un fiore, cioè è in continua evoluzione anche come materia. Questo penso sarà uno dei destini dell’architettura, mutare cambiando, ma cambiando anche nella sostanza, anche per non occupare più terreni inutilmente. Uno dei progetti collettivi è la preservazione e l’estensione  del vuoto come elemento necessario alla necessità di discontinuità. Queste sono un po’ le cose che faccio, in cui lavoro.

È  chiaro che oggi è difficile, con una così grave mancanza di lavoro, parlare di queste cose, però credo sia finita un’età dell’oro di costruire, quindi se pensiamo che un terzo delle megalopoli sono edifici vuoti, il problema adesso è di obbligarci ad usarli. Cioè di fare finire l’equazione dell’architettura come denaro in forma di volume che ha marcato l’espansione delle città nel pianeta. Credo sia un po’ anche la fine dell’idea di grattacielo, oggi sui grattacieli c’è solo l’insegna delle banche degli istituti finanziari, a nessuna azienda innovativa viene in mente d’istallarsi in un grattacielo. La cosa interessante è che non ci sono più motivi, se io penso al futuro, non penso di certo ad un grattacielo, penso piuttosto alla natura, ad altre forme di vita molto diverse di organizzazione. Non a caso i nuovi grattacieli con tetti verdi sono case di lusso per persone che non hanno niente da fare. A New York il grattacielo è per persone che si occupano di vendite ma che non sono impegnate nella produzione del mondo che verrà. Sono simboli molto precisi, ma non sono certo simboli del futuro. C’è un cambio di attitudine, e quando avviene un cambio di attitudine inevitabilmente crea una nuova forma, è stato così per l’arte degli anni ’70 e ’80 quando l’arte contemporanea ha cambiato di attitudine rispetto l’arte moderna e c’è stata una proliferazione di nuove forme di nuovi concetti. Credo che adesso l’architettura che è esplosa dieci anni fa si sta riorganizzando, partendo da frammenti, non più da certezze. Però questo credo che porterà grandi sorprese tra quattro o cinque anni. Cioè cominceranno ad esserci edifici molto moto diversi. Non li chiamerei neanche più edifici, non so come dobbiamo chiamarli, a me piace chiamarli sostanza costruita, dove c’è una mescola come materia, tra il corpo degli umani nelle materie che servono a stabilire la limitazione di uno spazio. Una sorta di fusione tra queste materie. Questo è già evidente nelle nostre case, la tendenza è fonderci quasi completamente nella casa in cui viviamo o nel luogo di lavoro. Credo che questo si trasferirà anche nella forma più esterna del’edificio.

Siamo anche nella prima volta della storia dell’umanità dove esistono le individualità. Questo mette fine alla città come l’abbiamo conosciuta, organizzata dalla società, dall’economia, dalla tipomorfosi. Oggi ci sono gli individui che si organizzano ed ognuno ha la sua identità fortissima. Una volta potevano dire siamo un miliardo di abitanti, oggi siamo un miliardo di individui, è proprio cambiato il concetto della stessa quantità e questa sta cercando la sua forma. Gli abiti ormai l’hanno trovata questa dimensione, la gente mescola abiti di stili diversi, stilisti diversi, proprio per costruire la propria identità. Questo penso che avverrà anche per la città.

2] La sua biografia è la prima cosa che gli appassionati d’architettura guardano, ed i nomi che sono legati al suo inizio come Albini, Gregotti, Botta, Aulenti  si affiancano a quelle che poi sono le sue esperienze  progettuali creative che l’hanno fatta conoscere nel nostro paese, in Francia e in medio oriente. Particolarmente colpita dal Lungomare del Foro Italico e la biblioteca a Palermo o i più vicini interventi di Riccione e Perugia, le chiedo a chi e a cosa si è ispirato e si ispira nella ricerca progettuale?

Non m’ispiro a nessuno, la cosa determinante per me sono le persone del luogo in cui dovrò operare,  quindi una specie di analisi sensitiva ma anche molto intuitiva senza neanche molta scienza del luogo, perché il luogo in prima cosa è composto da dalle persone. A me il passato, come  storie di preesistenze, non m’interessa più da tantissimi anni, anche perché queste si salvano da sole: ormai a nessuno verrebbe in mente di buttare giù la torre di Pisa. O il restaurare, il restauro oggi è diventato una iella per gli edifici: questo desiderio di cercare una data simbolo intorno a cui lavorare, distruggendo ancora le tracce di centinaia di anni, ha un’attitudine prettamente ridicola. Questo è particolarmente grave in Italia dove sappiamo restaurare la materia ma non ci occupiamo più della persistenza della vita dentro gli edifici. Questo è un dramma che è nato con Scarpa ed altre persone che avevano la licenza a demolire. Ciò non vuol dire che poi non hanno fatto edifici interessanti, ma hanno instaurato una perversione nei rapporti con il passato che oggi è diventata pericolosa, perché dietro l’angolo c’è sempre la Disneyland del passato.

Questo è favorito dalla mancanza di vitalità di grossi pezzi di città, se non delle città medio piccole che stanno morendo. La gente vive intorno ai centri storici, non vive nei centri storici, perché hanno bisogno della piscinotta, perché è cambiato il clima, perché hanno tre automobili. Delle città bellissime come Urbino e Ferrara sono delle città morte, non saprei come definirle in altro modo. Non è perché una città ha degli abitanti è viva, ma quelle sono città cadaveri, così come tante medie piccole città italiane. La gente vive in una città infinita che va da Trento alla Sicilia, questo paradossalmente spiega il successo di Milano una città che ha mantenuto una continuità essendo molto vitale, dove gli italiani vengono a fare i turisti per vedere un pezzo di modernità normale, una città che funziona, dove tutto è semplice, i servizi funzionano, la gente viene a farsi curare, è una città piena di verde e tutto questo è stato generato dal basso dai cittadini. Non c’è un progetto del verde a Milano solo che tutti piantano piante e le città che funzionano sono proprio così, non sono sottomesse a grandi progetti, hanno semplicemente una maggioranza di persone che la pensano allo stesso modo e poi ci sono lavoro e servizi e questo fa ripartire le città. C’è anche la capacità di affrontare in termini ordinari la vita contemporanea, non si può immaginare il futuro solo dentro al passato, è molto difficile, funziona in casi paradossali, ma nella normalità il passato è un peso quindi va compensato.

Questo è un dibattito da aprire perché coinvolge le famiglie, coinvolge i giovani e i giovanissimi che non capiscono il passato semplicemente perché è la loro casa e quindi non sono nemmeno interessati a quello che è accaduto nelle loro città nei loro territori.

Si vede che c’è qualcosa che non va, d’altro canto in Italia ci sono fenomeni strani, per esempio c’è in corso una naturalizzazione del territorio imponete, dai boschi che si espandono, alcuni boschi si stanno trasformando in foreste, la grande biodiversità animale e vegetale del nostro paese che è in crescita e questo perché gli abitanti usano il territorio in maniera distorta, però favorisce questa naturalizzazione. Questo va di pari passo con la tropicalizzazione del clima, cambiamento violento. Credo che l’Italia sia il paese che subisce di più il cambiamento climatico in questo momento, quindi sono fenomeni su cui penso si debba riflettere. Magari diventa un paese verdista, ma non nel verde dei giardini, dell’agricoltura ma in maniera molto diversa più selvatica. D’altronde l’uragano che ha distrutto decine di milioni di alberi  e questo favorirà un rimboschimento incredibile, perché molti alberi erano giovani, piantati lì da cento anni dall’attività umana. Chissà adesso che cosa accadrà! Penso che accadranno cose interessantissime, il paese è così stravagante.

Sento in molte persone un desiderio di vivere in una realtà più contemporanea nonostante la grande quantità di persone anziane che però hanno vissuto e sono figlie dell’Italia moderna. Quindi è una situazione socialmente molto diversa e non so che riflessi avrà sulla città. Di sicuro molte città stanno già facendo scelte molo contemporanee, come tutto l’asse Milano-Venezia. Tutte le città lungo questo asse si stanno organizzando in maniera diversa, ma sono i cittadini, non sono i progetti urbanistici e politici. Per esempio nella cura che c’è nella forma delle fabbriche e nei luoghi di lavoro. La mobilità sta ridisegnando il territorio, le persone di Torino o Bologna vengono a lavorare a Milano che diventa un centro di facile accesso per milioni di persone. Queste sono cose buone ma anche non buone perché poi creano una scompensazione di crescita se non vengono ridistribuite sul territorio. Però stranamente queste cose dipendono dai cittadini che possono compensare una cattiva amministrazione. Ad esempio città come Madelena o Bogotà sono a dimostrarci come i cittadini possono cambiare una città in tempi brevissimi. Anche in Cina, nonostante le politiche nazionali, ci sono città che funzionano e altre meno, altre che sono in decadenza, altre che stanno mantenendo le promesse. Le città che spingono di più in Cina sono quelle che hanno un minore tasso d’inquinamento come Shenzhen e si sono riorganizzate ed hanno comportamenti diversi che Pechino o Shanghai. Quindi guarda caso corrispondono anche alle città in cui c’è più innovazione industriale, scientifica ma anche sociale, città più inclusive. Quindi ci sono tanti “cantieri” a cui possiamo partecipare e dare ognuno di noi un contributo, se decidiamo di farlo.

L’architettura è in una fase poco importante non è una priorità, anche perché molti giovani architetti costruiscono case a sfere contro l’inquinamento, ma il problema è non inquinare più, non è accettare il trend dell’inquinamento, è un’attitudine passiva e remissiva. Però fortunatamente l’industria, la ricerca e la scienza lavorano per risolvere il problema in altra maniera, cioè migliorando i dati attraverso un impegno quotidiano e attraverso un grande progetto che non è costruire una cupola in cui l‘aria è ripulita, ma il vero progetto è continuare a tenere aperte le finestre. Questo è un impegno individuale obbligatorio.

Molti giovani architetti immaginano le case sulla luna, su Marte sempre con queste sfere, ma poi la realtà è tutta diversa, perché su questi pianeti cadono sempre delle meteore quindi bisognerà vivere sottoterra per ottenere un minimo di comfort. Sono case antiscientifiche a poco visionarie, sono visioni dell’800, però ci sta, in fondo siamo liberi di fare quello che vogliamo, però c’è una parte dell’architettura che è attraversata da una scientificità totalmente ridicola. Come tutti quelli che immaginano le Vertical FAB, frammenti di un’industria fiorente che però produce cibo industriale che si mangia nei sacchetti. Quindi perché dobbiamo produrre in città dell’insalata industriale senza i nutrimenti naturali in più consumando tantissima energia? Queste visioni banali penso che saranno smontate dai Big Data e dalle intelligenze artificiali.

Penso che i temi di oggi sono tutti un’altra cosa, l’aereo spaziale, la medicina, la genetica umana, la capacità di produrre nuovi arti, pezzi di corpi, poi il grande cantiere della terra, queste sono le priorità in cui l’architettura sta perdendo il senso, da cui questa sua banalizzazione formale.

Le polemiche sul padiglione italiano si sono create proprio perché le persone non sono più abituate ad avere cose che hanno un senso, quindi non sanno come prendere delle barche, c’è chi pensa ai migranti a mille metafore, ma nessuno dice la storia, perché nessuno arriva a leggere la terza riga, però va bene così, cioè è normale che sia così questa fase. Però nello stesso tempo si vedono nel pianeta fenomeni molto positivi e per me la parte positiva è superiore a quella problematica nel senso che si sente un rumore di fondo dell’umanità che vuole farcela. Le manifestazioni dei giovani sul pianeta, per quanto ingenue possano apparire rappresentano questo e lo stanno dicendo ai loro genitori ai loro nonni che hanno costruito il problema che loro adesso hanno, e lo manifestano. Però figli, genitori e nonni siamo tutti uguali di fronte agli stessi problemi, quindi le questioni valgono per tutti. Questo mi fa pensare positivo, che ogni cosa che pensiamo è nuova per tutti, i problemi sono nuovi per tutti, le soluzioni saranno nuove e saranno per tutti.

In Europa abbiamo la difficoltà a capire che cos’è un grande numero e questo sta limitando le nostre visioni e le nostre scelte, ad esempio nei prossimi mesi tutti i taxi cinesi saranno elettrici, questo vuol dire che in due anni saranno prodotte tre milioni di auto elettriche che sono il doppio di tutte le auto elettriche che circolano nel pianeta, quindi ci sta sfuggendo che cos’è il problema. L’Italia intera è più piccola di una città interurbana di Shanghai, questo non è buono o cattivo, è semplicemente diverso. In Cina quando si lavora e vive lì si sente che è una città, una società, che ha deciso di camminare, affrontare i problemi e questo è molto interessante. Fra due o tre anni l’Europa sarà grande come l’Indonesia, quindi c’è qualcosa che dobbiamo cominciare ad assumere da questi grandi numeri. Questo cambia tutte le visioni, ma non vuol dire che da domani non bisogna fare un piccolo edificio come questo di Fano, non cambia nulla.

Edifici che nascono da una storia fatta con i cittadini, dal basso, non come una forma di democrazia fasulla o di condivisione, ma come assunzione di processi dove ognuno si esprime, come condizione costruttiva. Ciò che si evidenzia è che quando si creano condizioni in cui si dialoga sinceramente fra persone, di problemi ce ne sono generalmente molto pochi. Basta partecipare a un dibattito costruttivo, dove a volte la fine è lontana dal punto di partenza, oppure non è dato sapere dove si andrà, ma il risultato è come fine logica di un processo costruttivo. Ciò non significa prendere una cosa ed iniziare ad annacquarla, trovare dei compromessi , ma l’intento è farla evolvere laddove diventerà una cosa interessante. Questo è un processo a cui io credo molto, che poi è anche un processo alla base dei team di ricerca. Quando sono molte persone intono ad un tavolo con una questione da risolvere al centro e non sono per forza amici, magari uno è un genio, non si lava, è un orso, ma che problema c’è? L’importante è che dia un contributo geniale alla soluzione del problema. A volte si ha l’idea di dover essere tutti amici, ma se uno è un solitario metropolitano perché deve avere amici? Quando è un ottimo cittadino e fa benissimo quello che deve fare, ma adora stare da solo, va benissimo, non è uno che ha problemi. Il bello anche delle metropoli è che iniziano ad accettare le diverse forme individuali, però poi le persone s’incontrano quando devono fare le cose, questa è la cosa importante. Questo è molto sano, non ha sovrastrutture di partenza, accetta le persone, si accettano i contributi e ci si evolve. Così com’era la città originaria o com’è la foresta primaria, in continua evoluzione, certo si devono mettere in conto delle perdite. La città è sempre stata così.

3] La prossima domanda La consideri personale quanto professionale, cioè legata all’architettura e alla dimensione creativa, poiché molte cose vanno di pari passo. In cosa crede?

La prima cosa della creatività è divertirsi, perché se non ci si diverte non si fa divertire gli altri. Per esempio gli orientali sanno che divertendosi, si tiene dentro la dimensione il dolore che non può essere separato dalla vita. Il problema è ritrovare una grande armonia tra vita, morte, dolore, divertimento, anche questo mantiene vivo il processo creativo.

Per esempio il Design è andato in crisi perché si è occupato della vita di chi sta bene, ma non si occupa dei bambini, dei ragazzi, rimanendo in una visione molto standard dell’abitare e questo l’ha portato ad estinguersi a non avere più tanto senso. Questo non vuol dire che poi qualcuno non disegni più un nuovo bel mobile ma questo sarà un nuovo evento che non marca nulla in modo significativo.

La storia del telefonino è interessante, in quanto oggetto convergente che sta entrando nel nostro corpo definitivamente e ci dice innanzitutto come il ruolo degli oggetti è cambiato. La sentenza della corte suprema americana ha stabilito che il telefonino è una parte del nostro corpo, non è nemmeno un’estensione, è una parte organica del corpo visto che la grande maggioranza dei cittadini lo usano e lo posseggono. Questa è una sentenza fondamentale per l’umanità, come cambiamento nel riconoscere per la prima volta che un manufatto umano è di fatto una parte del corpo, e non ha niente a che vedere con un cuore artificiale, ma è un nuovo pezzo che si aggiunge fisicamente. Questi eventi stanno cambiando un po’ tutte le cose e lo statuto legale della nostra vita.

L’altro grande passo sarà quando gli animali e gli alberi potranno sedere in un’assemblea politica, ma questo è un problema di linguaggio. Però i problemi di linguaggio oggi stanno facendo passi da gigante, fra poco si potranno fare discussioni sofisticate in diretta tra persone dalle lingue più diverse sempre con un telefonino. Già oggi si possono fare discussioni come la nostra, ma tra un anno si potrà entrare in un linguaggio ancora più sofisticato ed essere tradotti senza l’interpretazione. Bisogna avere molta serenità per affrontare queste nuove evoluzioni tecnologiche perché cominciano ad essere importanti, capaci di marcare profondamente i nostri processi creativi.

Quello che si osserva è che si può dire, fare, disegnare e produrre cose molto bizzarre. Ovvero la storia della creatività non è finita, anzi, e sono proprio gli scienziati ad insegnarci e a dirci questo, infatti un’attività così in fermento come la ricerca è fondata su una creatività sperimentale esasperata.

Per me oggi il lavoro dell’architetto è più simile al lavoro di un fisico-teorico, diverso da un architetto o da un ingegnere così come lo abbiamo conosciuto nella modernità del XX secolo. Un architetto potrà essere un fisico-teorico spericolato, che si occupi di teorie dell’universo che poi però si esprimono in attività estremamente basse, perché l’architettura è un’attività tecnicamente bassa dove non c’è evoluzione tecnologica, ma solo evoluzione qualitativa nella materia o nella statica come piccoli aggiustamenti.

Probabilmente nell’architettura non ci saranno mai grandi evoluzioni perché non è necessario, mentre può governare i processi di relazione tra la mente e la tecnologia in cui lo spazio è fondamentale.

Continuando a riflettere sul telefonino se noi pensiamo a questo oggetto e lo vediamo dal suo punto di vista è l’oggetto più fisico che abbiamo prodotto in tutta la nostra storia perché lo abbiamo sempre in mano. La sua iper-fisicità che consuma gli occhi, l’udito i muscoli, noi la vediamo sempre nella sua espressione eterea, ma in realtà si esprime con la sua incredibile corporeità. Tra l’altro non ha mai cercato di essere comodo, non ha mai cambiato forma, siamo noi che ci siamo adattati perfettamente a questo oggetto. Non abbiamo imparato ad usarlo perché ci approcciamo a lui istintivamente: Questo è la prima volta che accade nella storia dell’umanità. Quella fisicità presente nei nuovi edifici in cui non mettiamo più neanche la segnaletica nonostante si arrivi ad una grande complessità spaziale perché questa è governata da strumenti che hanno similitudini a videogiochi. Guardare in alto, in basso, avanti e dietro è l’azione primaria del videogioco o di google maps quando giriamo la vista. Ciò ha cambiato le relazioni con lo spazio.

A me fanno molta tenerezza gli architetti che sono appassionati a dedicarsi alle facciate che è un elemento secondario in genere dominato dalle regole urbanistiche oppure dai soldi disponibili, mentre l’interno è tutto un’altra cosa. Interessante quell’interno che spesso gli architetti non seguono perché non hanno le energie, il denaro, il cliente, il tema per poterlo affrontare, anche se poi quando si fanno tutti rimangono a bocca aperta. Nel senso che hai ancora l’influenza sul corpo, attraverso la luce o facendo spazi strabilianti in cui la gente fa l’esperienza della propria vita. Per questo penso che questo sia il destino dell’architettura. Poi l’opera può essere quadrata, tonda, figurativa, ma siamo consapevoli quando provochi uno shock emotivo derivante dallo spazio. Come l’alta moda quando lavora sui suoi flash. La casa di moda è la grande esperienza prima ancora dei vestiti. C’è un’accoglienza verso chi entra fondata sull’esperienza fisica come una parte dei nuovi musei degli ultimi trent’anni fondati sulla fisicità del primo impatto che poi trasformano la visita rendendola efficace perché sei diventato l’ammiratore di un luogo. Questo è particolarmente evidente perché quando si è creato un sostenitore puoi dargli un tema difficile, se non lo hai questo righerà dritto fino l’uscita. Un obiettivo complesso oggi è proporre temi difficili ad un pubblico sempre più vasto, che si lega al tema della divulgazione. Queste sono questioni che riguardano gli spazi interni su cui tutti gli architetti dovrebbero riflettere. Un esempio sono gli ambienti della Fondazione Prada, la relazione fra gli spazi del’900, la forte emotività fisica che colpisce e che quindi ti fidelizza. Un altro esempio l’edifico di Diller Scofidio a New York per la danza.

Purtroppo l’architettura italiana è dentro una storia molto diversa fatta di pregiudizi. Basta vedere come alla morte di Mendini invece di considerarlo una grande figura capace di interpretare le persone, è stato considerato un designer da strapazzo stravagante, però ha cambiato la nostra vita attraverso gli oggetti di Alessi attraverso lo Swatch, non come oggetti ma come parte della metropoli, come edifici. Ancora ci sono pregiudizi su Giò Ponti, o ci sono persone che operano recuperando figure come Canella, De Carlo che sono state anche dei buoni architetti degli intellettuali, ma non hanno nulla a che vedere con il mondo in cui viviamo noi, non abbiamo nulla da imparare per risolvere i nostri problemi. È una cultura architettonica prevenuta, dovuta anche a come sono andate le cose nell’università e nell’editoria, il fatto che non è stata qualitativa la parte moderna di molte città italiane, creando una reazione legittima. Porzioni di città per cui è difficile trovare un nome, forse cinematografiche, ma che comunque sono una brutta realtà e in molte persone generano una profonda difficoltà alla vita contemporanea . Se ci si chiede se la nostra periferia è la modernità e la risposta è positiva, forse questo non mi sta bene e il dissenso risulta legittimo, perché nulla del passato recente può esserci di sostegno se non funziona più in quanto non ci è d’aiutano ad andare avanti. Uno dei lavori più rilevanti nella fine del XX secolo è stato il Corviale a Napoli, oggi sono gli spazi delle serie televisive di Gomorra. In questi edifici, come il quartiere Zen a Palermo, non si vede un riscatto, ovvero la capacità di essere utili per un’altra cosa, come modello o fonte d’ispirazione. È una situazione complessa in cui l’impegno è fare molto meglio tutto.

4] Le sue architetture sono pervase di colore. Che rapporto ha con il colore?

A me il colore piace, non riesco ad immaginare la mia vita senza il colore, è sempre stato così. Non ho mai posseduto cose grigie e per esempio se metto una cosa nera è perché sta con gli altri colori, ma non ho mai messo pantalone e giacca nera. So che il colore aiuta, questo è sicuro, specie quando il colore è dato dalla luce e non è dipinto, non è materia, questo ha una grande influenza. Quindi cerco di fare dell’architettura con delle atmosfere a colori, che poi è la grande storia di Antonioni quando ha fatto Deserto Rosso quando ha dipinto gli alberi, le strade, il fumo delle fabbriche. C’è proprio una necessità di ricolorare secondo me questo la moda lo fa benissimo. Il cinema è tutto a colori, non c’è più il cinema in bianco e nero e questo è perché la vita è a colori. 

5] Ha parlato spesso di arte, di cinema e soprattutto di moda quindi secondo Lei l’architettura è qualcosa che s’indossa, che ci vive dentro prima di essere un oggetto al di fuori, o è ciò che definisce il senso che gli uomini danno al vivere un luogo?

La questione posta è se un luogo è un fertilizzante della vita. Oggi i luoghi, gli spazi dovrebbero essere delle forme enzimatiche. Oggi c’è molta energia, molti accumuli di energia e nutrimento però ci sono pochi enzimi che li trasformano. Se noi non avessimo enzimi in corpo potremmo mangiare tonnellate di cibo senza che questi si trasformino in energia per correre e per pensare. Oggi lo spazio deve essere enzimatico rispetto alla vita, cioè mettere in movimento le cose. Di spazi metafisici ne esistono tantissimi, il passato ci ha dato una quantità di questi luoghi che sono più che sufficienti. Credo che l’ultimo spazio metafisico interessante che ho visto è stato il museo della Shoa a Berlino, proprio perché tratta di un problema nuovo dell’umanità, del comportamento selvaggio di quegli anni ma è anche stato il più drammatico della storia dell’umanità. Quindi giustamente necessitava di uno luogo metafisico, poi però non mi sembra ne siano necessari altri. Ora c’è una grande necessità di spazi per mettere in moto le cose, in questo momento far girare l’energia sembra la priorità. 

6] Pensando al complesso di Sant’Arcangelo a Fano, secondo Lei quali sono i riferimenti progettuali per un’architettura contemporanea nel centro storico? Che rapporto ha con l’antico e con il tempo?

Il rapporto con il passato non m’interessa nel senso che verrei meno alla mia missione di architetto. Michelangelo non ha mai fatto un edificio completo, ha sempre lavorato per sedimentazione e creazione sull’esistente, non si è mai posto veramente il problema dell’antico, non si è posto un problema di linguaggio e questo credo sia la cosa più importante, la continuità. Il museo di Bilbao di Gehry  è un progetto di continuità rispetto l’esistente del ponte e del porto, non vedo particolari problematicità. A Sant’Arcangelo c’era questo edificio anni ’60 in cui la facciata mi è piaciuta e l’abbiamo tenuta ma non è che risponde ad un disegno di storicità. Forse è per rispettare tutte quelle persone che sono qui e hanno fatto la scuola in quel luogo, quando loro non ci saranno più la facciata prenderà un senso tutto diverso. Però in questo momento è importante per tantissime generazioni quel luogo, generazioni che vanno dai vent’anni ai settant’anni e che sono quelle che dovranno fare funzionare questa istituzione, che non è prettamente museale anzi è una struttura produttiva quindi queste sono scelte strategiche più che architettoniche, rispetto il passato. Per esempio quando mi hanno chiesto di fare il museo di Reggio Emilia che è un museo molto complicato, sofisticato, dopo un po’ che ci pensavo ho proposto di fare per dieci anni un laboratorio sull’idea di museo, invece di costruire un nuovo edificio e l’abbiamo fatto. Questo è diventato un riferimento di ricerca sull’idea di museo, ed ha generato anche polemiche, ad esempio Settis aveva fatto un appello sul corriere della sera contro questo episodio, ma proprio perché era una struttura di ricerca sull’esporre. Oggi il museo potremmo definirlo un archivio dei beni comuni dove parti dalla fisicità dalle testimonianze, arrivando a rivedere anche criticamente la tua storia. Questo lo puoi fare con la Gioconda, puoi farlo con la scatola di sardine, è veramente il senso che hanno questi oggetti rispetto i ai personali problemi che hai in questo momento. È quasi un dovere di non pensare più all’estetizzazione del passato, ma usare il passato partendo dalla sua realtà fisica, sperando che un gran numero di persone cominci a studiare e non si accontenti di leggere spiegazioni. Oggi il percorso personale è fondamentale, nessuno crede agli altri, in quel modo tu diventi compartecipe di tutto il processo  che è creativo. Cioè il dispiegamento di una collezione cambia anche in funzione dell’uso che ne fanno i visitatori. Con Germano Celant abbiamo fatto degli eventi alla Fondazione Prada sulla storia dell’Italia nel XX secolo e sono stati uno shock, partendo dagli oggetti, senza spiegazione, la gente inizia il suo percorso  e si offre nel limite del possibile, la possibilità di accesso alle fonti. Questo sta trasformando anche molti musei europei. Se sei in una galleria di quadri barocchi la sua impostazione sarà classica, ma se hai un museo complesso, con materiale eterogeneo che arriva fino all’oggi, allora diventa un dovere esplorare e senza pregiudizi da dove vieni per immaginare dove andrai. È un’attività produttiva che non ha più niente a che vedere con il passato presente e futuro. Oggi molte città, provincie e regioni pensano il museo in termini turistici ma non è molto interessante, perché anche il turista è interessato a conoscere le storie. Lo si vede dalla velocità con cui la gente entra nel museo e poi ne esce perché non ha molto interesse, per questo vorrei chiedere alle persone che vanno a vedere il museo di capo di monte cosa si ricordano quando escono della visita. Non è rilevante se non si ricordano nulla è il museo che non sa presentarsi in una maniera diversa. Questa è una grossa questione per me, poi ognuno ha le sue opinioni, come in ogni cosa, però penso che un buon museo è quello da cui esci con qualche questione in mente oppure o l’occhio contento, ma  non con qualche risposta. C’è un dibattito ideologico sulla curatela e l’esporre, ovvero se si può immaginare il museo come un’attività radicale della società e non come la conservazione che è necessaria ma è un’attività passiva

7] È stato scelto come ambasciatore IDD nella città di Dakar ed è vincitore insieme a Carlo Ratti e Matteo Gatto del concorso per il padiglione Italia a Dubai per Expo 2020. Quali sono i progetti che segue adesso, su cosa sta lavorando?

L’iniziativa curiosa del Ministero che ogni anno manda cento messaggeri che raccontano l’attività italiana nel mondo ogni 21 di Marzo provoca una bella iniziativa.

Adesso sto facendo le Fabbriche di Robot ed un grosso intervento di restauro urbano nel centro di Mantova. Seguo inoltre delle attività che sono legate all’intelligenza artificiale, che non hanno molto a che vedere con l’attività classica del costruire e sono più legate alla gestione delle megalopoli e metropoli attraverso i Big Data all’efficientamento delle città in Cina. Poi mi dedico all’insegnamento, io non insegno, però mi piace organizzare le scuole. Perché oggi l’università è diventata una delle principali industrie del pianeta quindi ha delle responsabilità nuove che non aveva prima quando si occupava dell’educazione, della trasmissione del sapere, oggi invece le gradi università sono delle grandi industrie che fanno ricerca che producono e giustificano la loro presenza le loro immense capacità perché ogni tanto creano qualcosa che serve all’avanzamento dell’umanità. Nei prossimi anni le università saranno  vere e proprie fabbriche di concetti di idee di brevetti questo sta mutando la pedagogia e le responsabilità della pedagogia perché sono strettamente legate al lavoro e non più alla conoscenza. Questo è fantastico e mi sembra un passaggio obbligato da affrontare. C’è un fenomeno di individualizzazione delle scuole, ogni scuola ha i suoi processi. La differenza fra pubblico e privato è sparita, in entrambe ci possono essere diversi modelli pedagogici e diverse visioni che queste scuole esprimono. Io ad esempio lavoro in un gruppo privato di scuola dove c’è l’Accademy e Marangoni e noi siamo impegnatissimi  perché in due anni dobbiamo cambiare tutto l’apparato pedagogico per continuare a stare nel mondo. Perché noi viviamo con il mondo e non a fianco al mondo perché le nostre scuole sono sempre state pensate in questo modo, ma in questo momento c’è una necessità di cambiare linguaggio con i giovanissimi, iniziando a pensare alla pedagogia e le relazioni industriali perché siamo a nostro modo un’industria. Ad esempio quando un ragazzo fa con un docente una nuova scoperta, di chi sono i diritti? Che ruolo ha la scuola? Sono tutti problemi nuovi. Lavorare insieme all’industria e attraverso la ricerca, sono le nuove frontiere proprio della nuova scuola. Basta vedere di fianco a noi c’è la Bocconi, c’è lo IULM anche loro hanno questi processi, non possiamo fermarci, anche perché siamo in una città che corre, ma anche il Politecnico di Milano a suo modo corre e nella corsa si cambia c’è una mutazione di queste scuole, è inevitabile. Quando hai studenti di sessanta, settanta nazionalità che devono convivere insieme per tanto tempo, giorno e notte ormai, sono tutti problemi nuovi. Inoltre oggi ad uno studente geniale devi dare una borsa di studio e attraverso contatti fargli approfondire attività fuori dalla scuola, questa è la cosa migliore cosa che puoi fare per lui, anche perché in genere sai che dopo qualche anno tornerà ad insegnare ed andrà tutto bene. Oggi sono significativi anche temi come questi.

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Approfondimento realizzato in collaborazione con Architettura>Energia, centro ricerche del Dipartimento Architettura dell’Università degli Studi di Ferrara.

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