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La Mostra Vinciana del ’39, curata da Giuseppe Pagano, rappresenta il punto di avvio della moderna ricerca storico-critica sulla figura di Leonardo e uno dei più importanti eventi espositivi del Ventennio Fascista. Il saggio ripercorre la genesi e le motivazioni delle scelte allestitive, mediante un attento studio del materiale documentale dell’epoca (cataloghi, articoli, pubblicazioni,…), mettendone in risalto il significato esemplare e polemico voluto dall’Architetto istriano, a sostegno di una linea di ricerca architettonica dichiaratamente moderna e razionalista e contro le più becere tentazioni storicistiche. Di particolare interesse il capitolo dedicato all’edizione americana della Mostra, fondato sul catalogo originario dell’esposizione. 1. Analisi storico-critica sul significato dell’esposizione In rapporto alla condizione culturale del Paese (alle soglie della guerra, al completamento della cosiddetta fase di “consenso” al regime…) e più specificatamente sul valore espressivo dell’evento espositivo in omaggio alla figura di Leonardo e al suo mondo di ricerca. Come giustamente sottolineato da Antonella Russo nel suo recente saggio “Il Fascismo in mostra”, “la spettacolarizzazione della vita politica durante il regime fascista non rappresentava né un momento episodico né un’appendice pittoresca del progetto totalitario, ma costituiva la base e il presupposto della strategia politica del regime” (1). Una strategia paradigmaticamente riassunta nelle parole di Mario Sironi, elemento di spicco della cultura artistica fascista,: “(…) nello Stato fascista l’arte viene ad avere una funzione sociale: una funzione educatrice. Essa deve tradurre l’etica del nostro tempo. Deve dare unità di stile e grandezze di linee al vivere comune. L’arte così tornerà ad essere quello che fu nei suoi periodi più alti e in seno alle più alte civiltà: un perfetto strumento di governo spirituale” (2). La pretesa e ricercata identità fra partito e Stato, fra Regime e italiani, aveva quindi nell’”estetizzazione” delle masse, ovvero nel loro costante coinvolgimento nei momenti rituali di una liturgia laica – fatta di mostre, esposizioni, parate, saggi ginnici e volta a celebrare il ruolo egemone e i successi del Fascismo -, uno dei principali cardini della politica di consenso attuata da Mussolini e dalle massime gerarchie di partito. Tramite la mobilitazione permanente della nazione si trasmetteva, infatti, alla società civile il senso di una rivoluzione in fieri – al “passo di corsa” -, dinamicamente impegnata a conseguire sempre nuovi risultati e traguardi, per la cui realizzazione chiedere il contributo, e soprattutto il sacrificio, di tutti i “veri italiani”. Ancor più, una rivoluzione dalla forte carica innovatrice, sinonimo di modernità e industrializzazione del Paese, contro il passatismo e l’immobilismo della trascorsa “sciagurata” stagione parlamentare liberale. La “Mostra della Rivoluzione Fascista” del 1932 (e le sue successive edizioni), la “I Mostra nazionale delle Bonifiche” sempre del 1932, l’”Esposizione aeronautica italiana” del 1934, la “Mostra nazionale dello sport” del 1935, la “Mostra autarchica del Minerale italiano” del 1938, e, infine, la “Mostra di Leonardo” del 1939, sono così solo le più significative punte di un incessante lavoro organizzativo degli apparati di regime, che seppero dare, indubbiamente, degli eventi espositivi un’interpretazione altamente aggiornata, sul piano della comunicazione di massa, e in linea con la funzione educativa invocata da Sironi. Il successo di pubblico a questi e agli altri avvenimenti (La “Mostra della Rivoluzione Fascista” fu visitata da 4 milioni di persone, con un incasso di più di 5 milioni di lire dell’epoca – circa 4 miliardi attuali – e con la vendita di 250.000 cataloghi) era garantito, infatti, da una sapiente regia mediatica che coinvolgeva l’intera stampa nazionale nella pubblicizzazione della singola manifestazione e da un’accurata programmazione degli eventi sul piano logistico-organizzativo, con pacchetti articolati di visita alle città sedi delle esposizioni, riduzioni ferroviarie per le associazioni dopolavoristiche e facilitazioni di soggiorno di ogni genere; in alcuni casi era anche previsto il parallelo svolgersi di manifestazioni di tipo sportivo, quali incontri internazionali di calcio, per accrescere l’interesse e il numero dei potenziali visitatori e, per la mostra su Leonardo, si giunse a diffondere il materiale illustrativo all’estero per mezzo delle rappresentanze e degli agenti di commercio delle ditte italiane e a pensare a una speciale serie filatelica commemorativa. Ma erano soprattutto i temi prescelti quale oggetto delle mostre a modificare radicalmente l’impostazione elitaria e museale in precedenza connotante i momenti culturali e a trasformare, per l’appunto, in eventi di massa quelli che sino a quel momento erano state occasioni di incontro per pochi eruditi “conoisseurs” (3). Le esposizioni volute dal Regime, infatti, in molti casi avevano per protagonisti quegli stessi “italiani” che le visitavano, trasfigurati in eroi quotidiani del lavoro (come nella “I Mostra nazionale delle Bonifiche” o nella “Mostra autarchica del Minerale italiano”) e dello sport, con un ricercato effetto di sentimento di partecipazione del singolo individuo allo sforzo collettivo di progresso del Paese incarnato miticamente dalla onnipresente e proteiforme figura del Duce – aviatore, sciatore, contadino, minatore, condottiero, giornalista, agitatore di folle oceaniche… Dal punto di vista degli allestimenti, una simile trasformazione di funzioni comportava poi una parimenti forte modifica dei criteri espositivi e soprattutto degli strumenti di comunicazione impiegati per diffondere il credo mussoliniano. La grande protagonista delle mostre fasciste fu la fotografia, sfruttata in tutte le sue potenzialità e i suoi effetti, a conferire una nota di sensazionale modernità e innovazione e a “pretendere” un valore oggettivo di quanto tramite essa veicolato. Gigantografie, mosaici, fotomontaggi, deformazioni ottiche,… divennero il mezzo principe per la creazione di scenografie di stampo futuristico che, non dissimilmente da quanto avveniva in parallelo nell’Unione Sovietica delle avanguardie costruttiviste e suprematiste, si dispiegavano su intere pareti con effetti di ridondante e ossessiva retorica. Inframezzate da slogan in rilievo, frasi del Duce ed elementi stilizzati descrittivi dei contenuti ideologici che si intendevano propagandare (come nella sala “O” della Mostra della Rivoluzione Fascista, curata da Giuseppe Terragni, con il suggestivo fotomosaico “Adunate”), le riproduzioni fotografiche costituirono uno strumento espressivo di fortissimo impatto emotivo sulle masse, anche perché in molti casi raccolte dalle stesse strutture del Partito presso le sezioni periferiche (nel caso della Mostra della Rivoluzione Fascista, ne giunsero al comitato organizzatore ben 15.000, tutte utilizzate) e, quindi, alimentanti il sentimento di attesa e di spirito di corpo delle centinaia di prestatori volontari per gli eventi organizzati. Un secondo elemento fortemente presente nelle esposizioni fasciste è la “ripetizione” martellante dei concetti e degli slogan (tipica, in questo senso, la copertina della Mostra della Rivoluzione, con il profilo granitico di Mussolini su un crescendo, ritmicamente sillabato e quasi “gridato”, di “DU-CE” quale sfondo), in ossequio alla teoria espressa dallo stesso Bottai, secondo cui, nella società di massa, occorre “(…) imporre la fisionomia, il gesto, la parola, con la reiterazione fotografica, cinematografica, fonografica, Ripetere, ripetere, ripetere. Proprio come nella pubblicità commerciale” (4). Dalle scritte sui muri delle case in ogni Paese, riproducenti le frasi del duce, ai cinegiornali Luce, dalle canzoni popolari trasmesse dall’Eiar, alla simbologia dei fasci littori negli edifici pubblici, sino all’uso della camicia nera nelle adunate di partito, il Fascismo fu maestro nella “ripetizione” di un concetto di base essenziale: l’inscindibilità fra nazione e Partito e l’identità di quest’ultimo con la figura di Benito Mussolini, padre della nazione. In questo quadro di riferimento generale, sul significato e il valore attribuiti dal Fascismo alle esposizioni nazionali, la “Leonardesca” (come fu sinteticamente appellata dalla stampa la mostra sulla figura di Leonardo) assume un ruolo particolare, per il momento in cui viene a cadere e per il tema affrontato. Svoltasi nel 1939 al termine della cosiddetta fase di consenso degli Italiani al Regime, a seguito dell’impresa etiopica e della proclamazione dell’Impero, e pochi mesi prima dell’inizio delle ostilità del secondo conflitto mondiale, essa si pone innanzitutto quale propagandistica celebrazione del genio creativo italico e della sua capacità d’inventiva, in chiave autarchica e anti-sanzioni. In quest’ottica, Leonardo viene elevato a simbolo del primato e della supremazia nazionale nell’ambito della ricerca scientifica e delle applicazioni tecniche, sottolineandone il mantenimento (e anzi l’esaltazione) dello spirito nell’Italia fascista e, per tale verso, la totale inefficacia di misure punitive rivolte agli eredi di chi tutto ha inventato e che tutto ancor oggi sono in grado di inventare. Non a caso alla Mostra su Leonardo fu fortemente voluta associata e ad essa organicamente connessa una ampia rassegna delle invenzioni italiane contemporanee tesa a sviluppare tale assunto di continuità (5). Quest’ultima, poi, mediante un meccanismo di premiazione che prevedeva, da parte del Ministero delle Corporazioni, l’assegnazione di una somma di 10.000 lire a ciascuna delle cinque migliori invenzioni presentate, si poneva quale più facile momento di identificazione e autorappresentazione (almeno nelle intenzioni, ché le 100 lire richieste dagli organizzatori per presenziare in qualità di espositori forse mitigarono l’effetto del premio, a giudicare almeno dalla polemica innescata al proposito da Nicolò Maria Bruno sulle pagine dell’”Italia”), per la gente comune rispetto ai temi sviluppali nella vera e propria mostra su Leonardo, costituendo un forte stimolo alla buona riuscita e alla partecipazione all’esposizione. Da questa generale impostazione ideologica, non poteva che derivare un’accentuazione della figura di Leonardo tecnico scienziato su quella di Leonardo artista, pure presentata con dovizia di opere e di documentazione, ma sicuramente destinata a passare in secondo piano rispetto alla prima, se non altro nelle note di cronaca e di costume – invero un po’ becere – dell’epoca. E del resto tale taglio critico era implicito nella concezione sopra esposta delle mostre, voluta dal Fascismo, quali eventi di massa, con la necessità quindi di porre l’accento su quegli aspetti della produzione vinciana di più sicura presa anche per un pubblico di non addetti ai lavori, come indubitabilmente potevano essere i tanti modelli e le molteplici ricostruzioni delle intuizioni e delle macchine leonardesche realizzate dai curatori dell’esposizione. Inoltre gli studi e le elaborazioni nel campo dell’ingegneria e della meccanica meglio si sposavano con la “mistica” antropocentrica fascista dello spirito e della volontà prevalenti sulla bruta materia (e, in questo senso, esemplare fu la Mostra nazionale delle Bonifiche, con i fotomontaggi, ritagliati nettamente sullo sfondo degli agri malarici, di uomini virilmente al lavoro nel plasmare e rimodellare la natura avversa) e con il mito futurista, fatto proprio dal Fascismo, del primato della tecnica e dell’innovazione nel governo dei destini della nazione. Sempre, poi, per quanto attiene le ragioni della scelta del tema, Leonardo, con l’aver trascorso i suoi ultimi anni di vita presso la corte di Francia e con la messe copiosa di opere esposta nei principali Musei internazionali, risultava ancora la migliore e più naturale testimonianza del riconoscimento della superiorità dell’ingegno nazionale operato da parte di quegli stessi Paesi che, in quegli anni, si illudevano di osteggiare l’Italia per mezzo dell’embargo commerciale. In questo senso, tuttavia, la Mostra, con la fattiva partecipazione della Gran Bretagna, della Francia, degli Stati Uniti e di quasi tutte le maggiori gallerie nazionali europee allo sforzo compiuto, veramente ragguardevole, di raccolta e catalogazione del più ampio numero possibile di opere e documenti del e sul Maestro toscano, fornisce anche chiara evidenza del breve momento di riavvicinamento intervenuto fra Italia e futuro schieramento alleato a seguito delle giornate di Monaco del settembre del 1938: il 4 gennaio del 1939, così, la stampa quotidiana italiana, nel commentare le notizie circa gli eccezionali materiali per l’esposizione provenienti dal Regno Unito, si riferisce all’Inghilterra come a una nazione amica e, proprio in occasione dell’inaugurazione della mostra, si decide altresì di organizzare la partita di calcio Italia-Inghilterra. Il quadro politico europeo caratterizzato da una fortissima instabilità, a seguito della crescente spinta espansionistica tedesca, comunque, suggeriva di non eccedere in ottimismo e anche per questo verso l’esposizione si connotò come momento di propaganda interna circa l’efficienza e la modernità dell’apparato bellico nazionale. Alla sala dell’ingegneria militare, dedicata agli studi sul tema di Leonardo, immancabilmente presentato anche in questo campo applicativo come isolato precursore dei tempi moderni, faceva così da contraltare nella mostra delle invenzioni il grande padiglione dell’esercito italiano (circa 1.000 metri quadrati, il più grande dell’esposizione, con a disposizione anche un’area esterna all’aperto), in cui si cercava di dimostrare, a partire dalla retorica presentazione fattane sul catalogo, l’altissimo grado di innovazione tecnica propria dei mezzi in forza al dispositivo militare nazionale: “L’Esercito ve ne dà qui la riprova esauriente e convincente. Quando uscirete da questo suo luminoso padiglione (…) è un senso di fierezza che porterete con voi e di ragionata fiducia. Avete visto da vicino i nuovi mezzi di cui il nostro esercito si serve per vivere muoversi e combattere; avete avuto la testimonianza, sotto gli occhi, della sua intelligente attività e della sua feconda inventiva in perfetta e pronta aderenza con tutti i progressi tecnici e scientifici che giorno per giorno l’Italia realizza nel campo civile. Con queste armi e con lo spirito di oggi – “questo spirito che vince la materia” – l’Italia marcia tranquilla e sicura del suo destino agli ordini del suo Duce. Perché sa che tutte le mete saranno integralmente raggiunte”. Se questo era il sottofondo ideologico, in cui si sviluppò l’idea e la successiva organizzazione della Mostra, e di cui ampia eco è rintracciabile – come detto – nella stampa dell’epoca impegnata pressoché quotidianamente nel ribadire tali concetti, su diretto suggerimento della Stefani, di ben diverso tenore – tutta improntata al rigore scientifico e filologico – fu invece l’elaborazione contenutistica dell’esposizione curata dal comitato esecutivo e dai commissari di ordinamento delle singole sezioni. Pressoché niente in essa, infatti, né nell’allestimento , né nell’apparato decorativo minimalisticamente ridotto ai termini essenziali, autorizzava una lettura del materiale espositivo che travalicasse il suo valore documentale e la sua funzione didattica e di studio, così come esplicitamente puntualizzato nella succinta presentazione introduttiva allo stesso catalogo della Mostra: “Preparata da un Comitato del quale fanno parte i più sicuri studiosi di Leonardo da Vinci, la Mostra fu compiuta con il desiderio di accostare il popolo italiano al più grande Uomo del passato nelle scienze e nell’arte”. Una stridente divergenza di finalità e significati, che va a tutto a merito dell’onestà e del valore intellettuale degli scienziati e degli studiosi che parteciparono alla cernita e alla selezione dei materiali e di cui Giuseppe Pagano fu il fedele e inflessibile interprete. Note (1). Antonella Russo, “Il Fascismo in mostra”, Editori Riuniti, Roma, 1999, pag. 5. (2). Citato in Antonella Russo, op.cit., pag. 184. (3). Nelle pagine introduttive del catalogo della Mostra della Rivoluzione fascista, a cura di Dino Alfieri e Luigi Freddi, si affermava fra l’altro: “Ciononostante una compiuta armonia regna tra le varie sale, legate tutte alla esaltazione e alla celebrazione dei fasti della Rivoluzione Fascista, indissolubilmente unita al pensiero e alla volontà di Mussolini che ritroviamo tribuno, combattente, agitatore, polemista, condottiero di insorti, Capo del Governo, suscitatore e dominatore trionfante dei fasti nazionali. Ed è perciò che questa Mostra non ha l’aspetto arido, neutro, estraneo che hanno di solito i musei. Essa invece si rivolge alla fantasia, eccita l’immaginazione, ricrea lo spirito, il visitatore ne resterà conquistato e preso fin dentro l’anima. Sicchè noi abbiamo fede che lo scopo educativo della Mostra della Rivoluzione Fascista sia felicemente raggiunto”. Dino Alfieri e Luigi Freddi (a cura di), “Mostra della Rivoluzione Fascista”, Partito Nazionale Fascista, Roma, 1933 – XI, pag.9. (4). Citato in Aurelio Lepre, “E la borghesia creò il mito di Stalin”, Corriere della Sera, n.?, pag.?. (5). “Come s’è detto a fianco della Mostra di Leonardo si svolgerà quella delle invenzioni per affermare, attraverso la rievocazione delle opere e del pensiero di quel sommo, che l’Italia ha un preciso compito di civiltà e di progresso tecnico nel mondo e che, nel nuovo clima della Rivoluzione Fascista, tende a conquistare il primato delle invenzioni come mezzo di prestigio, di benessere economico e di autarchia”, in “Il Messaggero di Rodi”, 14 luglio 1938. E il Comitato Esecutivo della Mostra delle Invenzioni così si esprimeva, nella premessa al relativo catalogo, a proposito dello spirito e dell’insegnamento della duplice Mostra: “Un’espressione somma della genialità della nostra razza, una continuità secolare, la certezza che la scienza e la tecnica del tempo di Mussolini sapranno dare al Paese nuovi strumenti di benessere e di potenza. Perché questa Mostra delle Invenzioni Italiane – … – non vale solo come consuntivo delle conquiste realizzate dalle sanzioni ad oggi, ma come punto di partenza per nuove mete vittoriose”. 2. I materiali della mostra La suddivisione tematica, il percorso espositivo, la “ricchezza” dei documenti espositivi, la ricostruzione delle macchine, la scenografia allestitiva. Se dal punto di vista della strumentalizzazione ideologica, e non poteva essere diversamente, la Mostra di Leonardo non si discosta dagli altri coevi avvenimenti culturali, pur in forma nettamente più mediata e meno esplicita, avendo un chiaro fine propagandistico (che nulla toglie, tuttavia, al valore scientifico dell’evento) almeno nelle intenzioni dei “padrini” politici dell’iniziativa, sul piano dei criteri espositivi, al contrario, è possibile ravvisare evidenti e significative differenze. La regia dell’allestimento curata da Giuseppe Pagano, il rigore dell’approfondimento culturale imposto dalla figura di Leonardo e l’autosufficienza iconografica del tema stemperarono, infatti, di molto, sino quasi ad annullarli, gli eccessi retorici e i toni enfatici propri delle altre esposizioni. Una calibrata misura di effetti, pur nell’uso della fotografia e di un tono didascalico che, alcuni, trovarono ancora troppo affetto da suggestioni pubblicitarie, contraddistinguono indubbiamente in positivo la coreografia generale della Mostra, che fu più l’occasione per faziosi (e a volte involontariamente comici) elzeviri a tema sui giornali che non, essa stessa, strumento diretto di educazione politica delle masse. All’horror vacui futurista dei saloni della “Mostra della Rivoluzione Fascista”, destinati a infondere nel visitatore un senso di annichilito stupore di fronte al turbine di immagini e di slogan che parevano prorompere dalle pareti delle sale, Pagano, infatti, contrappose uno sfondo razionalista netto fatto di muri “bianchi”, quale ambientazione unitaria dell’intera Esposizione, ricercando la predominanza e l’eloquenza costante del documento leonardesco (“ingrandimento fotografico del suo disegno e del suo scritto” (1), quale privilegiata e pressoché unica chiave di lettura del materiale esposto. Un desiderio di approfondimento analitico, mai scevro, tuttavia, di valore poetico, che trova forse la sua più chiara evidenza nell’interpretazione che Pagano diede delle ricostruzioni delle macchine vinciane: “Lontano da ogni idea di immediata utilizzazione, da ogni sfondo di falso cantiere o di falsa tessoria o di falsa tipografia, i telai, i torchi, le macchine di bonifica, ogni più normale o eccezionale costrutto riprese la stessa ragione che aveva prima destato l’interesse di Leonardo: la stessa ragione disinteressata. Invece di macchine da brevettare, diventarono dei congegni razionali, degli esperimenti meccanici di valore sublime. Ci piacque, allora, dare a più d’una di queste macchine un colore inatteso, rosso sangue, rosa pastello, nero fondo, in modo da animarle anche come valore di linea e di massa, contro le pareti candide. Questo sembrò ad alcuno un sacrilegio contro la scienza, ma molti intesero che le colorazioni vestivano di un accento illuminatore i gruppi meccanici suddividendoli in logici raggruppamenti suggeriti solo dal colore e conducendoli a vivere un poco più in là della loro ormai delusa prepotenza” (2). Una filosofia allestitiva, dunque, che mentre si poneva inevitabilmente al servizio della organizzazione “generatrice di consenso” del regime, dall’altro ne interpretava il ruolo in forma assolutamente libera e in piena onestà intellettuale, preoccupandosi unicamente della coerenza artistica ed espressiva del disegno complessivo dell’esposizione. Quest’ultima, sempre nelle parole del suo curatore, si articolava “(…) in tre sezioni: una di evocazione degli ambienti attraverso i quali passò Leonardo; una per la presentazione di Leonardo scienziato e tecnico, soprattutto con macchine e applicazioni; la terza per Leonardo artista e per gli artisti del tempo di Leonardo” (3). Un esame a tutto tondo, dunque, della poliedrica figura del Maestro di Vinci, condotto con ricchissima dotazione di apparati documentari – quale mai sarà possibile, anche in seguito, riottenere – e con l’intento di sottolinearne l’attualità del pensiero, o, ancora nelle parole di Pagano, “(..) di salvar Leonardo al di fuori della storia del costume (…)” (4). Il Louvre, Il Museo di Budapest, quelli di Bruxelles e di Detroit, le raccolte reali di Windsor e numerose collezioni private inglesi, francesi, americane, tedesche e belghe inviarono, come detto, personali contributi all’allestimento della Mostra, a dimostrazione di un sentimento di partecipazione all’avvenimento di livello veramente mondiale, e per alcune settimane sembrò anche che fosse possibile portare a Milano persino “La Gioconda”. Del resto alla raccolta del materiale, alla ricostruzione filologica delle macchine e alla loro ordinata esposizione collaborarono per ciascuna delle aree disciplinari individuate, come ricordato, alcuni dei massimi studiosi del tempo, con funzioni di Commissari di Ordinamento, offrendo il loro apporto e le loro competenze al buon esito di una mostra destinata ad avere una vasta eco e risonanza nazionale (anche per il concomitante svolgersi della citata esposizione delle “Invenzioni Italiane”) e internazionale (New York e, forse, Tokio dovevano essere le prestigiose tappe successive programmate) e che poteva vantare il patrocinio diretto del Comune e dei Fasci di Combattimento di Milano, con Pietro Badoglio, Dino Alfieri e Giuseppe Bottai (5) rispettivamente in qualità di Presidente Generale e di Vice Presidenti della manifestazione. Per quanto attiene più strettamente il percorso espositivo, questo si organizzava ai piani terreno e primo del Palazzo dell’Arte a partire da un Atrio di ingresso di sapore largamente evocativo (architetti: G. Muzio e C.B. Negri), con la ricostruzione di due macchine leonardesche (l’elevatore di colonne e la fustella per conii) e una composizione fantastica di suggestioni pittoriche da Giotto, a Leonardo a Raffaello, … (del pittore Decio Buffoni), per poi proseguire nella Sala dell’Iconografia Vinciana. Qui, sotto la regia degli architetti R. Bianchetti e C. Pea (con Leo Planiscig quale commissario di ordinamento) erano raccolti una serie di dipinti, medaglie e rilievi in marmo o gesso dei secoli XVI e XVII – alcuni in riproduzione – recanti l’effige del Maestro ora nelle sue vesti, ora in quelle di Platone o Aristotele. La Sala dei documenti e dei luoghi vinciani (architetti: A. Annoni e E. Cerruti; commissari di ordinamento: Paolo Arrigoni, Costantino Baroni e Alessandro Cutolo), che costituiva il successivo ambiente, presentava un’inedita esposizione di ben 61 documenti (lettere, contratti, annotazioni, in originale o in riproduzione fotografica), provenienti in larga parte dagli archivi di Stato di Milano, Firenze, Mantova e Modena, e dall’Archivio notarile di Milano, relativi all’attività di Leonardo nel corso della sua lunga esistenza e con riferimento ai diversi campi di applicazione della sua vena creativa. In pratica quasi tutti gli atti ufficiali di archivio allora conosciuti erano ivi raccolti, congiuntamente alle memorie dei cronisti a Lui coevi e a documenti di carattere più prettamente familiare. Nella parete terminale della sala, poi, concludeva questa sezione di carattere maggiormente introduttivo un pannello con riproduzioni di disegni e incisioni raffiguranti il Vaticano, la Rocca di Rimini e le vedute panoramiche di Venezia, Mantova, Genova, Pavia e Firenze ai tempi di Leonardo. Seguivano La Sala della Firenze Medicea (architetto: A. Putelli; commissario di ordinamento: Giovanni Poggi) e quelle della Lombardia Sforzesca (architetto: G. Frette; commissari di ordinamento: Caterina Santoro e Alessandro Visconti) e della Francia al tempo di Leonardo (architetto: G. Frette; commissario di ordinamento: Leopoldo Mabilleau), in cui il copioso materiale esposto (dipinti, sculture, armi, medaglie, manoscritti,…) era accompagnato alle pareti da motivi decorativi (a graffito o dipinti) liberamente ispirati al tema dei singoli ambienti e dovuti alla mano del pittore Nicolò Segota. Attraverso “due sale di passaggio” (6) (“della Biblioteca di Leonardo” e “dell’astronomia, della matematica e della geografia”), si accedeva, quindi, al cuore vero e proprio della Mostra, con la successione della sale dedicate a Leonardo scienziato e alla ricostruzione modellistica delle sue intuizioni nei campi della fisica, della tecnica e della meccanica. Ed è qui che in maniera più evidente si può cogliere il senso dell’operazione di Pagano, quella concezione progettuale e di principio a un tempo, che egli si sarebbe augurato di vedere trasposta dal campo delle manifestazioni provvisorie alla “vita duratura” dei musei nazionali: “Né, d’altronde, anche se si fosse voluto seguire non altro scopo che quello di approfondire, nel più astratto campo della scienza, queste particolari ricerche, sarebbe stato qui possibile. Troppe delle macchine disegnate da Leonardo hanno dovuto essere realizzate in proporzioni inferiori al vero piuttosto come modelli esplicativi o interpretazioni personali che come macchine effettivamente ideate da Leonardo; troppe altre hanno dovuto essere presentate più come oggetti da esposizione che come macchine in funzione. Questo d’altronde, non poteva essere un laboratorio industriale ma non altro che una esposizione e, come tale, doveva soggiacere agli stessi criteri ordinatori e vivere nella stessa atmosfera d’arte di tutta la restante Mostra Leonardesca” (7). Fedeli a questi principi ordinatori si succedevano, quindi, la Sala dell’Idraulica, della Marina e della Cartografia (architetti: P.Chiolini e G.Sacchi; commissari di ordinamento: Luigi Filippo De Magistris, Albino Pasini, Arturo Uccelli, Guido Uccelli, Luigi Tursini, Carlo Zammattio), ricca di plastici quali quelli del progetto di bonifica delle Paludi Pontine e del cantiere per la realizzazione del canale navigabile tra Firenze e il mare; la Sala dell’Anatomia (architetto: G.Pagano, commissari d’ordinamento: Filippo Bottazzi, C.Felice Biaggi, Giuseppe Favaro, Ferdinando Livini) contenente soli disegni e ingrandimenti di illustrazioni dagli appunti vinciani, con l’unica eccezione di una composizione decorativa centrale voluta dallo stesso Pagano e costituita da uno scarno tronco d’albero dipinto di rosa (simile a quello riportato su un foglio di Windsor) e da un supporto geometrico entro il quale era disposta la preparazione anatomica di un cuore umano; la Sala della Botanica (architetto P.Ponti, commissari d’ordinamento: Antonio Baldacci, Luigi Pollacci, Sandra Zelaschi Guy), con riproduzioni di studi sull’accrescimento delle piante e della filotassi; la Sala dell’Ottica (architetto: G.Pagano, commissario d’ordinamento: Domenico Argentieri), che presentava canocchiali e dispositivi per la realizzazione degli specchi; la Sala delle Arti Meccaniche (architetti: R.Camus e G.Minoletti, commissari di ordinamento: Giovanni Canestrini, Roberto Marcolongo, Giovanni Strobino, Arturo Uccelli), in cui erano collocati la maggior parte dei modelli ricostruiti di macchine leonardesche suddivisi in organi di moto e accoppiamenti cinematici, macchine utensili e macchine operatrici finalizzate ad applicazioni industriali, macchine tessili; e infine la Sala del Volo (architetti: L.Figini e G. Pollini, commissari di ordinamento Francesco Cutry e Raffaele Giacomelli), dominata da un grande modello di ala per misure di portanza. Terminati gli ambienti destinati all’illustrazione del pensiero tecnico e scientifico di Leonardo, la Mostra proseguiva con una serie di sale relative alla sua figura di artista, in cui ancora una volta, Pagano intervenne radicalmente per confermare, anche in questa sezione, il medesimo rigore purista e lo stesso spirito di finesse cartesiana con cui aveva inteso liberare di ogni inerzia archeologica i materiali esposti, esaltandone i “(…) valori assoluti, eterni ed attuali nello stesso tempo” (8). Niente cornici, dunque, per i dipinti (almeno nelle intenzioni di Pagano, ché tale criterio fu possibile adottare per un solo ridotto numero di tele, fra cui la Testa del Cristo di Botticelli) e niente quadri appesi alle pareti – certo anche per l’impossibilità di prevederne, in fase di progetto, l’esatto numero e le precise dimensioni -, ma soprattutto per lasciare libera l’opera d’arte di esprimere integralmente il proprio mondo poetico ed evocativo, in totale astrazione dal contenitore museale specifico. Furono pertanto realizzati degli appositi supporti in tubolari di metallo bianco, provvisti di snodi e giunti, o paretine mobili con strutture di aste di legno spostabili, tali da consentire un’ampia flessibilità di collocazione, che suscitarono l’approvazione entusiastica di Bottai e di Marino Lazzari, Direttore Generale alle Belle Arti. La sezione si apriva con la Sala della scultura (architetti: Reina e Usellini; commissario d’ordinamento: Pietro Toesca), ove erano per lo più esposti piccoli bronzi di scuola leonardesca o lombarda del XVI e XVII secolo, per poi proseguire in quella del Verrocchio (architetto: G.T. Carrer; commissario d’ordinamento: Pietro Toesca) e trovare il suo momento più alto nel Salone d’Onore (architetto: A.D.Pica; commissari di ordinamento: Giovanni Poggi, Mario Salmi, Pietro Toesca), in cui erano riuniti dipinti, disegni e studi di varia tecnica provenienti dal Louvre, dagli Uffizi e dalla altre pinacoteche nazionali, dalle raccolte reali del Castello di Windsor e da innumerevoli collezioni private inglesi, americane svizzere, francesi,…. Qui l’elenco delle opere esposte si farebbe realmente interminabile, non essendovi praticamente testimonianza artistica dell’opera di Leonardo, quale pittore, esclusa dal materiale presentato nel salone, eccezion fatta per pochissime realizzazioni, fra cui l’invano attesa Gioconda. Un totale complessivo di 105 pezzi di eccezionale valore che vennero custoditi prima dell’inaugurazione della mostra in un apposito ambiente blindato entro l’attiguo Castello Sforzesco e che annoveravano tra gli altri i codici C e D dell’Istituto di Francia e i tre codici della Forster Library conservati presso il Victoria and Albert Museum di Londra. Seguivano, quindi, in più rapida successione la Sala delle copie di dipinti di Leonardo (architetto: R. Zavanella; commissario d’ordinamento: P.Toesca), la Sala Gallarati Scotti e Melzi d’Eril (architetti: G.L.Banfi, L.Barbiano di Belgiojoso, E.Peressuti; commissario d’ordinamento: Giorgio Nicodemi), con dipinti di scuola lombarda del XV e XVII secolo provenienti dalle omonime collezioni, la Sala della scuola di Leonardo (architetti: G.L.Banfi, L.Barbiano di Belgiojoso, E.Peressuti; commissari d’ordinamento: Giovanni Poggi, Mario Salmi e Pietro Toesca), ove erano raccolti dipinti di Ambrogio da Fossano, Vincenzo Foppa, Giovanni Antonio Boltraffio, Bernardino de’ Conti, e altri maestri della maniera leonardesca, e, infine, la Sala del Luini (architetti: G.L.Banfi, L.Barbiano di Belgiojoso, E.Peressuti; commissario d’ordinamento: Giorgio Nicodemi). Chiudevano da ultimo la Mostra gli ambienti dedicati all’Architettura civile e religiosa (architetto: P.Portaluppi, commissari d’ordinamento: Giulio Arata, Costantino Baroni, Gino Chierici, Cesare Chiodi, Piero Gazzola), all’Urbanistica (architetti: C.Chiodi e A.Putelli; commissari d’ordinamento: Gino Chierici, Cesare Chiodi) e all’Ingegneria Militare (architetti: G.Arata e A.Alpago Novello; commissari d’ordinamento: Ignazio Calvi, Gino Chierici, Alberto De Capitani). Note (1). Giuseppe Pagano, “ La Mostra di Leonardo a Milano nel Palazzo dell’Arte”, in Casabella-Costruzioni, n.141, settembre 1939, pagg.6-19. (2). Giuseppe Pagano, op.cit. (3). Giuseppe Pagano, op.cit. (4). Giuseppe Pagano, op.cit. (5). Pietro Badoglio, Maresciallo d’Italia e Duca di Addis Abeba, era anche Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche; Dino Alfieri e Giuseppe Bottai rivestivano invece le cariche di Ministro della Cultura Popolare – il primo – e di Ministro dell’Educazione Nazionale – il secondo. (6). La definizione è dello stesso Pagano (Giuseppe Pagano, op.cit.). La brevità e i termini bruschi dell’accenno, con cui Pagano liquida questi due ambienti nella descrizione dell’allestimento espositivo redatta per i lettori di Casabella-Costruzioni, può indurre a pensare a una sua non condivisione circa la necessità della loro presenza. Del resto, sempre nel medesimo articolo, alcune righe sopra, lo stesso Pagano ricordava come “La mostra aveva già una sua suddivisione che non poteva da noi essere revocata alla vigilia dell’inaugurazione e che dovette essere sistemata, a volte, un poco di fortuna”(Giuseppe Pagano, op.cit.). (7). Giuseppe Pagano, op.cit. (8). Giuseppe Pagano, op.cit. 3. Il ruolo di Giuseppe Pagano La sua regia, la funzione di “mediatore” nei riguardi di una certa cultura architettonica italiana degli anni ‘30, i rapporti politico-culturali tra Milano e Roma e l’”occasione” di un confronto… Giuseppe Pagano viene chiamato a rivestire il ruolo di supervisore della Mostra di Leonardo (titolo con cui compare nel frontespizio del relativo catalogo quale membro del Comitato esecutivo) cinque settimane prima della data di inaugurazione. E’ Lui stesso, nel già ricordato articolo di presentazione della Mostra sulle pagine di Casabella-Costruzioni, a menzionare il fatto e a specificare la natura esatta dell’incarico allora ricevuto: “(…) rivederne l’avviato ordinamento e (…) dirigerlo con un preciso criterio informatore in maniera di ottenere, per quanto era possibile in così breve tempo, una assoluta e viva unità di carattere”(1). Nomina alquanto sorprendente, se si pensa che in origine l’apertura dell’esposizione era stata addirittura prevista per il 1° settembre del 1938, e tale da far supporre che all’origine dello slittamento ci fossero difficoltà(2) molto maggiori di quanto non volessero far credere le veline della “Stefani”, che avevano attribuito il rinvio (immediatamente riprese alla lettera da tutta la stampa quotidiana) solo alle esigenze dei curatori di disporre di un maggior intervallo temporale per organizzare, con la dovuta attenzione, la vasta mole raccolta di documentazione e materiali. Non si deve, dunque, pensare, come pure altrimenti avrebbe potuto indurre l’esiguità di tempo, a un incarico conferito quale puro titolo di riconoscimento onorifico; al contrario, il Direttore di Casabella-Costruzioni intervenne (si è visto nel paragrafo precedente) in maniera radicale e con animato vigore nell’opera in corso per modificarne lo stesso impianto concettuale. Come, infatti, ancora riportato da Pagano, “Si rinunciò a progetti e anche a lavori avviati: tutti risposero con cordialità al mio appello: giovani elementi si aggiunsero con fervida adesione e venne data agli architetti quella autorità e quella responsabilità artistica che prima si credeva di poter affidare ai commissari tecnici”(3). In particolare, dallo stesso resoconto di Pagano e dall’analisi critica della Mostra quale essa effettivamente si svolse, sembra di poter dire che, al di là degli aspetti più puntuali di scenografia allestitiva in precedenza descritti, furono soprattutto quattro gli elementi caratterizzanti il suo intervento: la ricollocazione dei “commissari di ordinamento” nel ruolo loro proprio di comitato scientifico-culturale dell’esposizione, senza merito nelle scelte espositive, ma con i soli compiti di vaglio critico del materiale selezionato, di interpretazione dei documenti e di ricostruzione filologica delle macchine leonardesche; la pretesa di una assoluta semplicità espressiva quale tramite per conferire un tono unitario alle diverse sale(4); la costante e asettica predominanza del documento originale (ingrandimento fotografico del suo disegno o del suo scritto) sull’arbitraria ricostruzione; il ruolo di “manifesto” – per una museografia, ma ancora meglio per un’architettura razionalista – attribuito all’evento. Dei primi tre punti già si è detto, almeno in parte, nei paragrafi precedenti. Qui ci soffermeremo, invece, ad approfondire l’ultima questione, anche perché essa ci consente di allargare il respiro delle nostre riflessioni al più generale ruolo svolto da Pagano nel panorama dell’architettura degli anni ‘30 e perché alla sua luce meglio si comprende la più generale filosofia-guida dell’operazione e, quindi, delle altre scelte compiute. Il molte volte citato articolo di presentazione della Mostra sulle pagine di Casabella-Costruzioni si conclude in tal senso in modo alquanto significativo: “Ho richiamato con piacere l’attenzione sui metodi seguiti perché credo che debbano essere validi anche al di là delle manifestazioni provvisorie, proprio nel campo in cui le esperienze qui fatte possono essere trasportate a vita duratura: nel campo dei musei nazionali”(5); e ancora, poche righe prima “Questi, al di fuori di ogni concetto polemico, i principii sui quali si è svolta la mia opera: principii che mi sembra abbiano anche più importanza della stessa attuazione che, in compagnia di tanti ardenti collaboratori, mi è ora avvenuto di compiere e quasi direi di improvvisare(…)”(6). Al di là delle negazioni di forma, dettate dall’opportunità delle circostanze, l’intento polemico risulta invece evidentissimo fin dall’incipit (“Naturalmente, mio primo concetto fu di escludere qualunque messinscena di rievocazioni in istile” (7) ) e in piena sintonia con l’annosa battaglia condotta in tanti articoli e saggi critici dall’architetto istriano contro i fautori del passatismo e di una monumentalità ossessiva. L’attività di pubblicista, in qualità di direttore di “Casabella”, che per circa un decennio ne accompagna quella professionale, infatti, è caratterizzata da una strenua difesa dell’architettura moderna e dei suoi giovani esponenti dagli attacchi sempre più diretti e violenti della reazione classicista (l’”internazionale dei fessi”, come da lui argutamente bollata nei suoi scritti), che a partire dal ‘36 si vanno colorando di accenti nazional-sciovinistici in conseguenza anche delle scelte di politica internazionale operate dal regime fascista dopo la campagna di Abissinia. “Chi si ferma è perduto” (8), “Discorso ai riempitori di destri” (9) , “Urgenza di parlar chiaro” (10); “Una solenne paternale”(11); “Potremo salvarci dalle false tradizioni e dalle ossessioni monumentali” (12);… sono solo alcune delle accorate arringhe difensive con cui Pagano, fascista movimentista della prima ora, cerca – e fino al 1941 si illude (13) – di arginare la deriva imperial-totalitaria che viene rapidamente corrompendo la cultura italiana di quegli anni. Promotore instancabile di nuove e diverse iniziative, in associazione sovente con colleghi più giovani, il direttore di Casabella accetta anche il rischio di commesse marchiate dall’ambiguità, come nel caso del progetto dell’Istituto di Fisica alla città universitaria di Roma, ricompreso entro il magniloquente ed enfatico piano urbanistico diretto da Piacentini (incarico che gli valse le frecciate di Bardi e di altri esponenti del fronte razionalista), pur di guadagnare nuovi spazi alla pubblica espressione delle sue idee. In realtà, almeno in un primo momento, Pagano sperò probabilmente di poter svolgere un ruolo di traghettatore verso i lidi razionalisti di tutti quegli esponenti della cultura e del regime che, almeno a parole, facevano mostra di propendere per un’architettura nazionale che fosse moderna, favorito in questo anche da una non univoca e definitiva presa di posizione dello stesso Mussolini in materia. Ben presto, tuttavia, giungerà il tempo della caduta delle illusioni seguita dalla presa di coscienza che l’arte nuova espressione della rivoluzione fascista, per l’ “accademia” Piacentiniana semplicemente “(…) diventa la moda delle superfici levigate, dove la più ammirata abilità è quella di chi riesce a dare l’illusione della modernità ripulendo il vecchio stilismo dalle croste delle decorazioni fuori moda” (14). Se a Roma, tuttavia, la strada è per l’appunto sbarrata dall’onnipresente figura di Piacentini, che va ritagliandosi il ruolo di egemone riferimento per le grandi opere del regime, riassorbendo nei lavori da lui diretti (si veda in proposito l’esperienza dell’Esposizione Universale di Roma, ove Pagano si trova a collaborare, oltre che con il medesimo Piacentini, con Luigi Piccinato, Ettore Rossi e Luigi Vietti), con un’abile politica di cooptazione, le molteplici istanze che animano in quegli anni il mondo architettonico italiano, a Milano Pagano riesce a muoversi con maggiore libertà e autonomia, nel pervicace sforzo di fornire la propria testimonianza in ogni occasione concessagli in favore di un’architettura che possa dirsi realmente moderna, ancorché sempre più consapevole della casualità del presentarsi di questi avvenimenti(15). E proprio a tali rare fortunate opportunità va annoverata l’improvvisa nomina per la Mostra di Leonardo del 1939, al cui incarico non è sicuramente estranea la presenza dell’ “amico” Bottai quale vice-presidente (nel Corriere della Sera del 5 maggio ‘39 si legge: “La direzione della mostra è stata affidata dal Ministero dell’educazione Nazionale all’Architetto Pagano, il quale svolge funzioni di supervisore generale”) e che si presenta come un palcoscenico nazionale e internazionale a un tempo per dimostrare tutte le potenzialità dell’approccio funzionalista ai temi del progetto. Certo, anche in questo frangente, l’importanza e l’eccezionalità dell’evento, il suo carattere istituzionale (come detto era stata promossa dal Comune e dai Fasci milanesi, con l’adesione e il patrocinio formale di numerose personalità) e la tardività nell’assegnazione del ruolo poi lui attribuito di regia impongono a Pagano la stretta convivenza con professionisti d’impostazione accademica o comunque lontani dal suo sentire, alla cui compagnia sicuramente avrebbe rinunciato volentieri. In questa occasione, tuttavia, il gioco può essere condotto a parti rovesciate rispetto alle travagliate esperienze romane, grazie al titolo di supervisore affidatogli. Anche lo scarseggiare del tempo, con l’impossibilità di un ulteriore rinvio dell’inaugurazione, pena il ridicolo (e forse qualcosa di più, visto che Badoglio si era sbilanciato nel richiedere la presenza dello stesso Duce – “l’italiano più grande del presente” -per l’apertura della Mostra sull’opera dell’”italiano più grande del passato”), indubbiamente favorirono Pagano a ottenere quell’”assoluta unificazione dei criteri ordinativi”(16), che altrimenti gli sarebbe stato molto difficile conseguire. Se contrasti sulla linea da lui imposta ci furono, pertanto, essi furono bruscamente risolti sin dalla prima riunione ove Pagano e i suoi non ammisero “(…) neppure la discussione con chi poteva ancora desiderare che i quadri del ‘500 dovessero essere presentati in sale di stile cinquecento o pressapoco”(17). Muzio (quel Muzio che nel 1941 Pagano bollerà, senza tanti complimenti, in compagnia di Piacentini e di Michelucci, quale “grasso pavone delle arti ufficiali” e “spacciatore di nuovi capitelli modellati sullo stampo di un tornitore di tubi da cesso”(18)), Piero Portaluppi, Giulio Arata, Cesare Chiodi, Alberto Alpago Novello…, rappresentanti tutti, a vario titolo, del fronte anti-moderno, vengono così, più o meno loro malgrado, a essere coinvolti in un’operazione progettuale di esemplare matrice razionalista, senza possibilità di incidere sui criteri organizzativi della mostra e oltretutto relegati alla gestione di sale e ambienti di evidente marginalità rispetto al cuore dell’esposizione, centrato sulla figura di Leonardo tecnico-scienziato. La contemporanea mostra dell’Invenzione Italiana, che, come ricordato, si teneva negli attigui padiglioni progettati dallo stesso Pagano presso il Palazzo dell’Arte, contribuiva, infatti, inevitabilmente ancor più di quanto non fosse naturale, a enfatizzare l’importanza di tale corpus scientifico nell’ambito della multiforme produzione artistico-culturale di Leonardo, ricollegando le sue intuizioni meccaniche a quel mondo della produzione industriale contemporanea, la cui nuda essenzialità estetica era tanto cara ai fautori del moderno in architettura, e facilitando per questo tramite un’allusiva filiazione diretta di questa sensibilità da quelle straordinarie e originali riflessioni. E forse anche questo stretto legame che ci fu tra le due esposizioni, fortemente voluto dalla macchina propagandistica del regime (tanto che Badoglio si rifiutò, come inizialmente richiesto dal Comitato esecutivo della Mostra leonardesca, di scindere i due avvenimenti per non coinvolgere nel rinvio dell’inaugurazione anche quella delle “invenzioni italiane”, tagliando corto che l’organizzazione congiunta era “un concetto approvato da Mussolini e come tale immodificabile”), impegnata a dimostrare la continuità nei secoli del pensiero creativo italiano, aiutò Pagano nel suo tentativo di “chiamare a vivere l’opera di Leonardo su uno sfondo (…) che mai accusasse limiti di tempo di fronte ad un’opera viva e attualissima anche oggi”(19). Così si capisce come, sullo stesso numero di Casabella-Costruzioni, in cui Pagano illustrava i principi ordinatori della Mostra, Costantino Baroni poteva scrivere, in un articolo dal titolo “Valori ed ombre dell’architettura vinciana”,: “Si può ritenere che per la prima volta con Leonardo l’architettura tenda realmente ad espressioni di razionalità. L’uomo con i suoi bisogni è al centro delle preoccupazioni che danno il substrato logico alla creazione edilizia. (…)Tutto lo schema della sua “città ideale” è in ragione del comportamento dei traffici, dell’organizzazione politica e del risanamento igienico ”(20). Certo un’interpretazione forzata, di cui evidentissimi sono la natura e gli intenti faziosi, ma condotta su un piano di polemica culturale in ogni caso ben distante dal coacervo di parallele assurdità, circa le preoccupazioni sul cattolicesimo di Leonardo o sul suo appartenere, dal punto di vista della razza, al tipo nordico puro, che in contemporanea accompagnavano sulla stampa con ritmo martellante l’esposizione e che davano la misura di quanto ormai fossero finiti i tempi e chiusi gli spazi, se mai ci fossero stati, per immaginare di operare entro il fascismo secondo una direttiva “antirettorica, antiborghese e rivoluzionaria”(21), come ancora nel 1940 si illudeva di poter fare Pagano. Nell’ambito di questa irrisolta – e forse ineliminabile – ambiguità di fondo, che costituisce il limite della Mostra e, più in generale, di tutta l’attività di Pagano, mentre, dunque, ai giovani razionalisti venivano affidate le sale delle arti meccaniche e del volo, oltre alle sale della pittura con le ricche collezioni Gallarati Scotti e Melzi d’Eril, e Pagano stesso curava quelle dell’anatomia e dell’ottica, a Muzio (molto indicativamente mai citato nell’articolo di Casabella-Costruzioni) veniva assegnata l’apparentemente prestigiosa progettazione dell’atrio di ingresso alla Mostra, avendo avuto prima cura, tuttavia, di fissarne inequivocabilmente l’orizzonte dei mezzi espressivi e di vincolarne in modo rigoroso la misura a quell’ “assoluta semplicità” che era stata intesa e voluta quale cifra unificatrice dell’intera esposizione. Né miglior sorte toccava agli altri “passatisti”, chiamati alla responsabilità delle sale dell’architettura civile e religiosa, dell’urbanistica e dell’ingegneria militare, ma ugualmente costretti entro un copione già scritto, cui obbligatoriamente dare la propria adesione (o, nelle parole di Pagano, “una sicura collaborazione nel medesimo concetto informatore”(22)). Anche perché più difficile, per la natura stessa della materia affrontata, poteva risultare loro qualsivoglia tentativo di “ambientazione” che non fosse quello rigidamente imposto dalla supervisione di Pagano. Una “vittoria”, dunque, sul piano del confronto con i diretti oppositori, sottolineata, fra gli altri, dagli apprezzamenti entusiastici del solito Bottai e di Marino Lazzari (Direttore Generale alle Belle Arti). Ma a rammentare che, a dispetto di quella battaglia, era la “guerra” che si stava perdendo, provvedevano a ricordarlo l’accettata esclusione di Rogers dallo storico gruppo BBPR (per l’occasione colpevolmente contrattosi in BBP) e quella di alcuni Commissari di Ordinamento, parimenti estromessi per la loro appartenenza alla comunità ebraica, mentre Ponti dedicava sulle pagine di Domus un piccolo trafiletto all’inaugurazione della Mostra e “L’Architettura”, la rivista del Sindacato Nazionale Fascista Architetti controllata da Piacentini, neanche quello, impegnata come era a presentare ai professionisti e al pubblico italiano – con un numero monografico – gli splendori e le magnifiche sorti progressive dell’architettura del Terzo Reich. Note (1). Giuseppe Pagano, “ La Mostra di Leonardo a Milano nel Palazzo dell’Arte”, in Casabella-Costruzioni, n.141, settembre 1939, pagg.6-19. (2). Una conferma di questa interpretazione giunge da Mario Labò, articolista de “il Lavoro”, che il 25 maggio 1939, presentando la Mostra, affermava: “Le ha dato il tono, con una fisionomia saldamente organica, l’architetto Giuseppe Pagano, chiamato a poche settimane dall’inaugurazione, per salvare un’impresa che appariva irrimediabilmente compromessa: “Attuare in forma di poesia una esposizione di documenti, di strumenti scientifici, di macchine”. (3). Giuseppe Pagano, op.cit., in Casabella-Costruzioni, n.141. (4). Inizialmente, come riferito dalla stampa quotidiana, che – si è detto – concesse largo spazio alle notizie relative all’organizzazione della Mostra, l’esposizione del materiale raccolto doveva avvenire entro una cornice scenografica di ambientazione in stile. (5). Giuseppe Pagano, op.cit., in Casabella-Costruzioni, n.141. (6). Giuseppe Pagano, ibidem. (7). Giuseppe Pagano, ibidem. (8). Giuseppe Pagano, in “Casabella-Costruzioni”, n.128, agosto 1938. (9). Giuseppe Pagano, in “Casabella-Costruzioni”, n.131, novembre 1938. (10). Giuseppe Pagano, in “Casabella-Costruzioni”, n.146, febbraio 1940. (11). Giuseppe Pagano, in “Casabella-Costruzioni”, n.149, maggio 1940. (12). Giuseppe Pagano, in “Casabella-Costruzioni”, n.157, gennaio 1941. (13). Testimoniano bene di questo stato d’animo le numerose missive inviate da Pagano all’allora Ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, da cui chiaramente trapela la speranza, destinata ad andare delusa, di fare dell’architettura razionalista l’”architettura di Stato” dei discorsi di Mussolini. (14). Giuseppe Pagano, “Chi si ferma è perduto”, in “Casabella-Costruzioni”, n.128, agosto 1938. (15). “Ed è perciò affidata al “caso” e non a una volontà preordinata, la buona stella di qualche architettura. Al caso più o meno raro che una fortuita contingenza metta a capo di qualche alta gerarchia un funzionario sensibile alle cose dell’arte o, per lo meno, un gerarca tanto intelligente da fidarsi di gente di buon gusto e di coraggio. In questa fiera delle occasioni capita che talvolta, nel commercio delle promesse e delle convenienze, un buon architetto riesca a realizzare qualcosa di bello”. Giuseppe Pagano, “Potremo salvarci dalle false tradizioni e dalle ossessioni monumentali”, in Casabella-Costruzioni , n.157, gennaio 1941. (16). Giuseppe Pagano, op.cit., in Casabella-Costruzioni, n.141, settembre 1939, pagg.6-19. (17). Giuseppe Pagano, ibidem. (18). Giuseppe Pagano, op.cit., in Casabella-Costruzioni , n.157, gennaio 1941. (19). Giuseppe Pagano, op.cit., in Casabella-Costruzioni, n.141, settembre 1939, pagg.6-19. (20). Costantino Baroni, “Valori ed ombre dell’architettura vinciana”, Casabella-Costruzioni, n.141, settembre 1939, pagg.2-3. (21). Come invece ancora ritenuto possibile da Pagano nel suo articolo del 1940, “Urgenza di parlar chiaro”, in “Casabella-Costruzioni”, n.146, febbraio 1940. (22). Giuseppe Pagano, op.cit., in Casabella-Costruzioni, n.141, settembre 1939, pagg.6-19. 4. Il successo culturale e partecipativo di pubblico e di critica della Mostra: il riconoscimento della stampa italiana e straniera, non solo un “successo” di regime… La stampa quotidiana nazionale riserva ampi spazi di cronaca all’inaugurazione della Mostra, avvenuta il giorno 9 maggio del 1939, anniversario della proclamazione dell’Impero (alla presenza, fra gli altri, del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, Presidente del Consiglio Nazionale delle ricerche, di Alessandro Pavolini, Presidente della Mostra delle Invenzioni e futuro Ministro della Cultura Popolare, e di Adalberto di Savoia-Genova, Duca di Bergamo, in rappresentanza della Casa Reale, che aveva concesso il suo alto patronato all’iniziativa), mantenendo la linea di grande attenzione per l’evento – giustificata dalla sua eccezionalità, ma anche dall’enfasi attribuitagli dalla “grancassa” propagandistica del Regime -, che aveva manifestato sin dalla sua iniziale concezione e di cui si è detto in precedenza. Fra i tanti aspetti interessanti della Mostra su Leonardo del ‘39, infatti, vi è anche quello di preziosa occasione di analisi delle “strategie della comunicazione” abilmente messe in atto dal governo fascista quale strumento di creazione e controllo del consenso, già oggetto di nostre precedenti considerazioni; come pure l’altro di specchio di un partito-nazione che se pretendeva di essere monoliticamente allineato sulle scelte del suo padre fondatore, in realtà presentava una sufficientemente ampia articolazione di posizioni e di distinguo, in relazione e riferimento alle singole personalità di spicco del Regime. Indubbiamente non si trattò, comunque, di sola propaganda: l’esposizione resta oggettivamente il punto di partenza degli studi e delle interpretazioni moderne sulla figura di Leonardo e l’eccezionale livello qualitativo (per il cui conseguimento lavorarono a ritmi serrati 120 studiosi suddivisi in 22 commissioni, con il coinvolgimento dei massimi esperti del campo e con la partecipazione alle sedute del Comitato esecutivo di figure del calibro di quella di Giovanni Gentile) e quantitativo (mai, né prima, né dopo si ebbe la contemporanea presenza di una simile messe di opere e documenti, soprattutto per quanto attiene il materiale conservato presso fondi e collezioni di altri Paesi) sono testimoniati dalle corrispondenze critiche, pressoché concordemente entusiastiche, della stampa estera, che su ben 174 testate di varia nazionalità (solo per citare quelle di cui si conserva memoria presso la Raccolta Vinciana di Milano, ove è documentata la rassegna stampa pressoché integrale dell’avvenimento) rese conto – sempre in termini più che lusinghieri – delle diverse fasi di organizzazione dell’allestimento espositivo, dall’idea iniziale alla sua concreta attuazione(1). Uno sforzo di cui si sottolineavano i meriti e la rilevanza dell’impegno, anche dal punto di vista economico (il preventivo di spesa, infatti, era stato calcolato in £1.800.000 e vide la partecipazione attiva quali finanziatori di privati, istituti di credito e gruppi industriali), con oltre 7.000 carte raccolte e vagliate, più di 300 dipinti analizzati e inventariati e circa duecento modelli di macchine e meccanismi ricostruiti fedelmente da un apposito studio di consulenza tecnica presieduto dall’Ingegner Uccelli, con l’ausilio di laboratori artigianali specializzati di falegnameria e carpenteria. E non poche furono le sorprese in termini di documenti rinvenuti o semplicemente portati a conoscenza della più vasta comunità scientifica e di nuove deduzioni critiche rese possibili dal confronto diretto delle opere. La partecipazione del pubblico, ancorché i numeri di presenze forniti dalla stampa quotidiana del tempo siano tutti da verificare nella loro effettiva entità, fu indubbiamente massiccia, come si può dedurre, leggendo tra le righe, da alcuni commenti che richiamavano i visitatori a non limitarsi alle sale dedicate a Leonardo, ma a proseguire con lo stesso interesse dimostrato per quelle anche nei padiglioni destinati alle invenzioni italiane contemporanee, che evidentemente soffrivano di un minor afflusso – per la collocazione in coda al percorso – a motivo dell’ampia estensione e della maggior attrattiva delle prime. D’altro canto, come ricordato, il fine propagandistico di cui si era venuta sempre più colorando l’operazione, in ragione dell’assunzione di Leonardo quale prototipo e campione dell’ingegno italico, quindi con un indiscusso sillogismo fascista e autarchico, aveva messo in moto la collaudata “macchina” partecipativa delle masse alle iniziative del Regime. In ogni caso, a voler prendere per buoni i dati pubblicati sulle cronache e limitati all’affluenza di alcune giornate, il 9 maggio, giorno dell’inaugurazione, oltre alle personalità invitate e ai giornalisti, furono già circa 2.000 le persone che varcarono gli ingressi del Palazzo dell’Arte, cui si aggiunsero i 10.000 visitatori del 14 maggio e i 5.000 del 18 maggio. Il 13 maggio si recò alla Mostra anche l’Ambasciatore inglese in Italia, che ne trasse una più che favorevole impressione, tanto da preannunciare una sua nuova visita per i mesi dell’estate, in compagnia di una delegazione britannica, e praticamente non vi fu giornale estero, d’arte o anche di semplice informazione quotidiana, che non suggerì ai suoi lettori in viaggio in Italia di recarsi a vedere la Mostra. Un successo notevolissimo, dunque, per quanto concerne la presenza di pubblico cui non mancarono, comunque, sul lato della critica, attacchi – anche pesanti – alla scarna scenografia dell’allestimento voluto da Pagano, solo in parte mitigati dal carattere di “evento di Regime” dell’esposizione e, quindi, come tale, soggetto per i commenti inevitabilmente all’uso della “sordina” pur nella espressione dell’ astio polemico. L’architetto istriano, che fino praticamente al momento dell’inaugurazione non figurava neanche nell’elenco dei curatori dell’esposizione (tanto che ancora il 26 aprile Giorgio Nicodemi è ricordato sulla stampa come il Sovrintendente ai lavori di allestimento della Mostra), salvo che per un piccolo trafiletto de “Il Corriere della Sera” del 5 maggio, per ragioni – come detto – crediamo di opportunità, ovvero per non sottolineare un ruolo di coordinamento generale così tardivamente concesso, che implicitamente avrebbe denunciato l’insorgenza di difficoltà organizzative in seno al comitato responsabile, è citato – con maggiore evidenza – una prima volta sull’edizione della “Sera” di Milano dell’8 maggio, come colui “(…) che si è assunto il compito di ordinare praticamente la mostra dandole consistenza concreta, limpida di logica e viva di rappresentazione”, mentre il 9 la “Cronaca Prealpina” di Varese gli dedica un’ampia intervista dal titolo “Di sala in sala” a firma di Angelo Carati, dai positivi risvolti critici. Una tribuna, quest’ultima, di cui Pagano approfitta per ribadire i principi ispiratori della sua opera, richiamandosi, con indubbia debolezza retorica, al pensiero stesso del Duce (“Non siamo degli imbalsamatori del passato”, è la frase mussoliniana cui anche in questa occasione, come già altre volte in precedenza, Pagano affida il compito di giustificare le sue scelte e, per contro, tacitare i suoi avversari del fronte classicista), e per spiegare che il criterio ordinatore razionalista – applicato ai materiali esposti nelle diverse sezioni – è stato quello che ha permesso di non scindere la figura complessa di Leonardo in tanti rivoli specialistici, dando luogo a una rappresentazione a tutto tondo della personalità vinciana. Un’impostazione che trova fra gli altri, il plauso in particolare de “Il Secolo XIX”(2) e de “Il Lavoro”(3). Di ben diverso tono, invece, sono i commenti delle testate più reazionarie del panorama editoriale nazionale, controllate (o comunque ispirate) da gerarchi e uomini di regime di scarsissimo livello culturale, quali un Farinacci, o di perversa e crudele ottusità, quali un Preziosi, sempre più allineati su posizioni di totale adesione ai programmi razziali e “culturali” (vedi la vergognosa campagna contro l’”Arte degenerata”) del nazionalsocialismo tedesco. A dare il fuoco alle polveri è, per primo, il “Tevere” di Roma, nel suo numero dell’8 maggio che, fatto salvo l’indubbio valore scientifico e culturale della Mostra, attacca pesantemente i criteri espositivi voluti da Pagano: “Paraventini, vetrinette, veli, luci trasparenti, muri di sughero, di eternit e simili non sono la cornice più adatta per inquadrare e far risaltare nella sua giusta luce la visione di quel secolo”, che per il Tevere avrebbe meritato una più aulica (leggi stilistica) rievocazione. Un giudizio confermato nella sostanza dal “Regime Fascista” di Cremona (10 maggio 1939), secondo cui l’allestimento pecca in senso “effettistico e pubblicitario”, e, pressapoco negli stessi termini, da “Il Popolo d’Italia” (9 maggio 1939), che ne denuncia l’impostazione didattica e, ancora una volta, pubblicitaria, criticando anche l’assenza o l’insufficienza delle didascalie. Del resto proprio “Il Popolo d’Italia”, quindi il massimo organo d’informazione della dittatura fascista, nel lontano 23 luglio del 1938 aveva già avanzato dubbi, con una nota di Raffaele Calzini, sull’opportunità di collocare la Mostra di Leonardo presso il Palazzo dell’Arte, suggerendo uno sdoppiamento delle sedi, con l’esposizione vinciana ospitata presso qualche palazzo milanese d’epoca appositamente restaurato per l’occasione, e quella delle invenzioni nella sua originaria destinazione ai padiglioni della Triennale. E il “Regime Fascista” (23 dicembre 1938) aveva bollato come “(…) ridicolaggine anzi sacrilegio di novecentizzare Leonardo”, qualsivoglia tentativo di fornire una chiave di lettura che non fosse quella della mera messinscena stilistica. Osservazioni, dunque, quelle avanzate da tali testate, che misurano la distanza fra i due fronti contrapposti, quello class Consiglia questo approfondimento ai tuoi amici Commenta questo approfondimento