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Con la nuova direzione di Thomas Krens al Museo Guggenheim di New York, avvenuta nel 1991, si è verificata una decisiva svolta storica nella gestione di questa famosissima istituzione statunitense, fino ad allora architettonicamente limitata alla sola e mitica immagine dell’edificio che Frank Lloyd Wright aveva realizzato a New York di fianco al Central Park nel 1959, ed al più modesto edificio storico di Venezia.La nuova amministrazione krensiana ha sùbito cercato, con tipico managerismo post-industriale, di veicolare la particolare attività museale verso una più aperta e diffusa imprenditorialità finanziaria, quella della cultura terziaria di cui l’attuale epoca post-moderna sembra ancora non completamente assuefatta, anche dopo trent’anni di esperienza e sviluppo. In pochi anni sono stati così pianificati altri 5 Musei Guggenheim nel mondo (sempre in USA, e nella stessa New York, a Soho; e quindi in Europa, a Bilbao, a Berlino, a Salisburgo, a Biumo presso Varese) sebbene soltanto tre di essi siano stati poi realizzati. Affidati ad altrettanto importanti architetti contemporanei (rispettivamente Arata Isozaki, Frank Gehry, Richard Gluckman, e Hans Hollein; tranne che per l’Italia, il cui concorso ufficiale non è mai stato espletato) avrebbero dovuto costituire i capisaldi della circolazione internazionale della produzione artistica mondiale, ed allo stesso tempo diventare imponenti luoghi di attrazione commerciale e propagandistica oltre che culturale (come l’ultimo di loro ad essere costruito, quello gehryano in Spagna, ha già ampiamente dimostrato). Progetto e realizzazione del Museo Guggenheim Bilbao Il Museo Guggenheim di Bilbao, progettato nel 1992 e concluso cinque anni dopo (nel 1997), è diventato un’opera importante e famosa, quasi addirittura più rinomata e conosciuta del suo antenato capostipite, il museo wrightiano di New York: concepito nella piena espressività eterogenea e scultorea che distingue le ultime opere decostruttiviste e post-moderne di Gehry, propone anche un nuovo modello di architettonicità museale, impostato sulla vivacità espressiva e sulla complessità spaziale, quasi disordinata e caotica, che si contrappone ad ogni altro precedente tipologico di questo genere per esaltare le sue funzioni di comunicatività e di stranezza formali, entrambe mezzi potenti di attrazione sensibile ed emotiva di massa.Al di sopra di tutto questo impressionante accatastamento di forme e di materiali (prevalentemente cemento, acciaio, e vetro, tuttavia diversamente impiegati e trattati dai criteri convenzionali e soliti dei progettisti del Movimento Moderno) spicca però il lucido rivestimento a lamelle embricate, inatteso e quasi inspiegabile, di titanio, utilizzato per rendere più eclatante e sorprendente, nonché spettacolare, l’impatto visivo dell’edificio, allo scopo di accentuarne la sua percezione ottica nella mente delle persone e nell’esperienza fisica della gente che lo visita e frequenta. Dietro comunque all’imprevedibile ammasso di volumetrie solide che costituiscono l’aspetto esteriore del fabbricato, sta una accurata e puntigliosa elaborazione progettuale, che per la prima volta in modo compiuto nello Studio di Gehry (abituato all’usuale procedimento disegnativo con strumenti tradizionali ed esplicitazioni stereometriche di verifica tridimensionale affidate a convenzionali modelli plastici di vari materiali e in differenti versioni analitiche molteplici) è prepotentemente prevalsa: il sistema computerizzato. Nel percorso concettuale della progettazione di Gehry questo museo rappresenta un momento di arrivo compositivo per quella formulazione espressiva che ho chiamato architettura scultorea, perchè proviene da un altro importante edificio museale da lui realizzato più di venti anni prima con analoghi criteri, il Vitra presso Basilea (a Weil sul Reno, tra la Svizzera e la Germania). Eppure, al contempo, questa formidabile opera plastica costituisce anche il prototipo compiuto di una nuova ed originale decostruttività ricompattata (impostata su volumetrie solide e piene, e poi curve e flosce non più soltanto lacerate a punta o sghembe e rigidamente angolari, come negli esempi più tipici del Decostruttivismo post-moderno corrente) che si configura appunto quale sculto-architettura, e da cui l’esemplare più recentemente eseguito è il Museo della Musica a Seattle (199 –2000). Sorto nell’area industriale più fatiscente e dismessa della periferia urbana di Bilbao (anche in questo caso con chiari intenti di ripristino e rivitalizzazione di una zona problematicamente abbandonata e persa al normale sviluppo cittadino) il Guggenheim gehryano ha scelto senza esitazione la soluzione innovatrice e provocatoria, anziché sottostare alla consueta prassi del recupero di vecchi edifici storici però di scarso interesse architettonico e di mortificante consistenza formale: puntando con decisione sulla forza della originalità edilizia, e sul potere capatatore dell’architettura contemporanea come messaggio di coinvolgimento ottico-emotivo anche su persone tradizionaliste ed indifferenti, il progettista losangelino è riuscito a creare uno speciale capolavoro di identità semantica variamente interpretabile, inglobante la novità tipologica museale, l’identificazione espressiva dell’edilizia odierna, l’aspetto attraente e pubblicitario, il gusto kitsch delle masse, ed il sottile riferimento contestuale (ed ambientalistico). Di quest’ultimo aspetto, per quanto inavvertito o nascosto esso possa presentarsi ed essere verificato, il gigantesco ammasso di accartocciamenti metallici del museo bilbaoino, emergente dallo squallore periferico dell’abbandono industriale (tuttavia opportunamente risistemato con un arredo urbano attento e raffinato, tra le cui esecuzioni spicca e si staglia l’aereo e leggero ponte, costolato e funiforme, di Santiago Calatrava), offre una caratterizzante esplicitazione illustrativa, di implicito significato etico, perchè la sua configurazione si assimila decisamente alla stereotipata immagine, sempre più invadente e diffusa, dello scarto urbano, della discarica metropolitana, dei rifiuti oggettuali eliminati ogni giorno, che viene metaforicamente elaborata ed offerta ad ammonimento fisico per una formulazione accettabile, esteticamente riciclata, e di ludica deviazione psicologica, della spiacevole realtà attuale, nonchè quale elemento di allerta ambientale maggiormente attenta e curata, non soltanto percettivo bensì pure di attuazione pratica. Come per l’eccezionale conformazione esterna, così anche di dentro il Museo Guggenheim a Bilbao mostra una esplosa spazialità disgregata, deformante e quasi mobile, gonfiata nei volumi vuoti ed altrimenti interrotta da inattese intrusioni materiche ed oggettuali, sulle cui superfici fluenti o improvvisamente interrotte mai riesce comunque a concludersi od a disperdersi il flusso visivo del visitatore, continuamente sollecitato verso una penetrazione sensibile dell’ambiente e dei materiali. La più sorprendente trovata edilizia di questa insolita architettura risulta tuttavia la stravagante ed unica, nel suo genere, copertura di rivestimento dell’intera opera espositiva, composta da una miriade di scaglie luccicanti di titanio incastrate ad embrice, che determinano un effetto di uniformità luminosa sulla superficie esterna, simile ad una pelle artificiale sconosciuta o ad un leggero manto metallico adagiato sopra svuotate masse contorteUn prodigio post-manieristico di elevata qualità percettiva, collegato ad uno straordinario concepimento estetico della morfologia architettonica; che purtroppo di recente ha rivelato anche i suoi inevitabili difetti tecnici di durata e purezza, ma che resta comunque sempre un espediente insuperabile di definizione espressiva quando le carenze pratiche di manutenzione verranno opportunamente e definitivamente risolte. Consiglia questo progetto ai tuoi amici Commenta questo progetto