Decumano Carbon Free: l’anello virtuoso che potrebbe essere applicato a tutti i borghi europei 22/10/2024
“Amate l’architettura perché siete italiani, o perché siete in Italia.L’Italia l’han fatta metà Iddio e metà gli Architetti.Iddio ha fatto pianure, colli, acque e cieli.Ma i profili di cupole facciate cuspidi e torri e case, di quei colli e piani, contro quei cieli, le case sulle rive che fanno leggiadre le acque dei laghi e de fiumi e dei golfi in scenari famosi son cose create dagli Architetti. A Venezia poi, Dio ha fatto solo acque e cielo, e senza intenzioni, e gli Architetti han fatto tutto” (G.P., Amate l’Architettura, 1957). Giuseppe Nardini deve aver letto l’entusiasta elogio della modernità di Giò Ponti quando ha pensato di festeggiare il pluricentenario anniversario della storica azienda ricorrendo ai benefici dell’architettura. Un’architettura nuova, che fosse un regalo alla città prima ancora che alla famiglia; un’architettura d’autore, autorevole e senza compromessi, disegnata d’impulso da Massimiliano Fuksas come interpretazione di un’esigenza del sito, quasi una lente d’ingrandimento per mettere a fuoco il contesto: il profilo basso della campagna, quello accidentato e crestoso dei monti lontani. Una decisione maturata quattro anni fa e da allora nutrita con l’intransigenza appassionata che il maestro del grattacielo Pirelli raccomandava al committente ideale, il coraggioso capitano d’azienda artefice del miracolo del “made in Italy”: “amate i buoni architetti moderni, siate tifosi dell’uno o dell’altro: associate i vostro nome alle opere che resteranno anche con il vostro nome” ed “esigete che onorino il vostro lavoro con civilissimi edifici per la vostra attività”. Simbolo di Bassano del Grappa il vetusto ponte palladiano sul Brenta e da sempre anche l’inconfondibile logo delle distillerie Nardini e il tradizionale landmark della centenaria “bottega”, che, grazie alla meticolosa conservazione degli arredi e degli utensili originali, figura di diritto nel gotha dell’Associazione locali storici italiani. Decidendo di contrassegnare il nuovo stabilimento di Capitel Vecchio con un landmark d’architettura voglioso di competere con l’irripetibile icona del ponte d legno, la famiglia Nardini ha scelto dunque senza esitazioni la strada della qualità nell’innovazione, aggiungendo di diritto il nuovo complesso nella lista prestigiosa della “fabbrica estetica”, tra la cittadella Ferrari di Maranello e gli stabilimenti Prada nell’aretino. Antico quanto il tempio milanese della lirica – il teatro alla Scala -, il tempio bassanese della grappa italiana ha deciso dunque di condividerne il destino di rinnovamento, proponendo allo studio romano di Massimiliano Fuksas di dotarlo di un pronao tecnologico: un segnale d’ingresso, con l’ambizione di rappresentare, nella metafora astratta congeniale alla vena artistica dell’architetto, la segreta alchimia dell’arte della distillazione. In alto, sospesi tra le chiome intoccabili degli alberi piantati da Pietro Porcinai, due nidi di vetro in bilico sulle gambe di un fenicottero d’acciaio; in basso, anzi sotto terra, la caverna luminosa di un auditorium solcato da taglienti lame di luce. La trasmutazione della materia – “distillare e come imitare il sole che evapora le acque della terra e le rinvia sotto forma di pioggia” – diventa così il tema della rappresentazione della pesantezza del suolo e della volatile leggerezza dell’alcool: all’origine del processo, la vite con le sue radici avide di terra; alla fine l’alambicco incantato dove si decantano i succhi per trasformarsi in sottile liquore. In mezzo, infine, la laboriosità dell’artificio umano, la sapienza tecnica che permette il miracolo della forma perfetta con l’impeccabile esecuzione delle strutture, da cui si genera la delicatezza umbratile degli spazi. Dietro l’avveniristica ironia delle astronavi del gusto visibili tra i rami, però, la logica di un programma funzionale ed ambientale: nessun impedimento alla vista dall’interno del preesistente edificio della distilleria e dell’imbottigliamento, massimo sfruttamento dello spazio a disposizione, incremento della qualità ambientale del paesaggio-giardino di Porcinai. La nuova struttura nasce, infatti, con l’obiettivo di supplire alla necessità di un auditorium in cui ospitare eventi ed accogliere i viaggiatori del turismo enogastronomico: cento posti a sedere nello spazio ipogeo, un numero variabile di visitatori nelle ellissi trasparenti al di sopra del suolo. I due mondi si fronteggiano offrendo una variabile gamma di sensazioni: sul piano verde del prato uno specchio d’acqua in movimento diventa il flesso di una doppia clessidra spaziale, il punto di riflesso e di congiunzione tra l’entrare sotto terra e il librarsi nell’aria. Il linguaggio tecnologico delle scocche di vetro costretto a misurarsi con la rude materialità del cemento a vista dell’auditorium: da una parte il sogno della smaterializzazione moderna, dall’altra la permanenza rocciosa dell’archetipo terragno. Tra i due poli la dinamica individuale di una promenade architecturale: una rampa discendente conduce il visitatore nello spazio sommerso, spingendolo a misurarsi con le asperità dei possenti muri di conglomerato e con i tagli luminosi dei lucernai subacquei che disegnano ombre e colori sulla trama monocroma delle superfici. Lasciato alle spalle il mondo della natura, si apre lo sguardo verso quello dell’artificio, mentre il passo è attratto dal perturbante invito di una scala luminosa: la promessa della risalita diventa il tronco dell’albero che conduce alle due chiome di vetro e acciaio. Dall’orizzontale l’asse si sposta di nuovo verso il verticale biforcandosi nei due rami degli alvei ellissoidali con i laboratori del centro di ricerca. Sullo sfondo, come una conquista, la catena pittoresca del Montegrappa. Un giorno arrivarono nello studio Giuseppe, Cristina e Antonio Nardini con una richiesta sorprendente. Dopo 225 anni che la famiglia Nardini era proprietaria e gestiva la famosissima distilleria per la grappa, volevano farsi un regalo. Il regalo consisteva in un'”architettura”. “Quando chiesi loro quale era il programma risposero esattamente così: l’abitudine di un architetto, specialmente se ha lavorato per oltre 20 anni nel mondo, è quella di chiedere al cliente che programma? E che budget? Sia il programma che il budget erano il mistero. Potevano nascere dall’alchimia dei nostri incontri e dal desiderio della creazione. Su un piatto poco dopo, dopo averlo girato, disegnai con la penna gli alberi che Porcinai, negli anni 70, aveva sistemato genialmente in un lembo di terreno antistante la distilleria. Le querce americane dovevano essere parte del progetto. Le due bolle di vetro avrebbero sfiorato, quasi toccato, gli alberi. Sotto, un piano che rifletteva completamente la parte bassa dei “cristalli”. Scavato nel terreno, anzi in un banco di ghiaia alluvionale, l’ingresso, il teatro, gli spazi misteriosamente illuminati dall’alto. L’unica condizione che mi posero fu quella di conservare gli alberi esistenti (sarebbe stato artificiale tagliarli e ripiantarli!. L’impegno quando iniziammo il cantiere, per non danneggiare le radici e le chiome, fu probabilmente la cosa che più mi dava ansia. Il cemento che protegge gli spazi del “sottosuolo”, labirintici, colpiti da fasce di luce occasionali, lo annunciai all’inizio, che doveva essere rivestito e perciò l’impresa poteva farlo senza esagerata cura. La realtà era invece diversa. Non volevo che i cemento perdesse la sua “materia”, che divenisse simile alla pietra o, peggio, a un materiale levigato, irriconoscibile. Quando il cemento, straordinario come fattura, fu completato, svelai il segreto. E così è rimasto. Il progetto aveva bisogno di un punto di appoggio, di una spina dorsale e l’ascensore obliquo mi sembrò immediatamente risolvere la questione. Bastarono poi alcuni “piedi” in acciaio, di sezione modesta, per dare stabilità al tutto. Gilberto aveva da subito immaginato due “scodelle” che raccogliesse ro gli “sforzi” delle strutture leggere delle bolle. La scala, costruita su una lastra di acciaio, ricollegava il luogo della luce, le due bolle, attraverso il piano d’acqua, con il teatro. Quando qualcuno fosse sceso o salito in ascensore o con le scale, emergeva o si immergeva dal o nel bacino d’acqua. E poi, se fosse questa una guida, consiglierei di visitare le toilettes. Filippo ha prodotto un video che, con una retro-proiezione, circonda gli specchi nei quali ci osserviamo. Il mondo labirintico e che prende la luce da piani inclinati e la rimanda all’interno, nel sottosuolo, si contrappone con l’universo di riflessi e il materiale delle bolle di vetro di Nardini. Un grande “alambicco” di vetro dedicato alla celebre distilleria Nardini Due “mondi”: il primo “sospeso”, formato da due bolle ellissoidali trasparent che racchiudono i laboratori del centro di ricerca, e l’altro “sommerso”, uno spazio scolpito nel terreno come un canyon naturale che ospita un auditorium di 100 posti a sedere. Una rampa discendente, matrice generatrice dello spazio-canyon, conduce all’auditorium ed è utilizzabile anche come platea all’aperto. La contrapposizione delle due platee inclinate forma un’unica arena continua per ospitare eventi. Lo spettatore seduto è circondato da un landscape generato dall’andamento aritmico delle pareti del muro inclinato. A livello terra, il piano d’acqua riflettente, crea uno spazio di riverberi e baglior nella zona di ingresso posta sotto le due bolle, che sembrano fluttuare “sospese” nell’aria. Le esili colonne, con diversa inclinazione, creano una tensione dinamica insieme al volume obliquo dell’ascensore. Al visitatore si apre una successione di viste in continua mutazione, generate dalla calibrata asimmetria dei diversi elementi architettonici: i due ellissoidi sfalsati e sovrapposti, l’ascensore obliquo contrapposto all’aerea scala, la rotazione della rampa d’ingresso. La superficie delle bolle è composta da una doppia pelle completamente traspa¬rente che permette di focalizzare la vista a 360 gradi sullo splendido scenario del paesaggio montano del Montegrappa. Due segni: uno raffinato, elegante, tecnologico, immateriale. L’altro brutale, dove la materia, il cemento armato, diventa epifania della forma. Un contenente e un contenuto, positivo e negativo in continua tensione connessi dalla struttura inclinata dell’ascensore ma immersi nella loro energia di segno contrario che spinge verso l’alto le bolle vitree dei laboratori e sprofonda nel sottosuolo l’auditorium con la sua pesante corposità. Le colonne più che sorreggere gli edifici sembrano ancorarli a terra. Il riverbero dell’acqua crea un piano speculare. Luogo geometrico di un’assurda omologia dove lo spazio vibra e si dilata. I soli 5 cm di profondità dell’acqua si trasformano in diversi metri di altezza. Camminare sulla passerella offre intense emozioni. Consiglia questo progetto ai tuoi amici Commenta questo progetto